C’è una pagina che si chiama ‘WTF Happened in 1971?‘ e pubblica solo grafici che mostrano come attorno a quell’anno si concentri una serie inquietante di fenomeni quantitativi, di inversioni di tendenza, di preoccupanti divergenze come quella tra la remunerazione del capitale e quella del lavoro. È a cavallo tra Sessanta e Settanta che negli USA in effetti si scorgono i primi segnali di un esaurimento del ciclo economico del Dopoguerra. Quanto all’interpretazione, è da mezzo secolo che gli studiosi dibattono, attribuendo di volta in volta la congiuntura agli shock petroliferi (ma il primo è nel 1973) o ai difetti del keynesismo, alla sospensione degli accordi di Bretton Woods (che pare più che altro una reazione disperata) o alle contraddizioni profonde del capitalismo.
Quel che è certo, è che in pochi anni si incrina l’ottimismo che aveva caratterizzato il ventennio precedente, e che era stato incarnato da parole d’ordine come ‘capitalismo regolato’ ‘crescita’ e ‘modernizzazione’. Si incrina ma non crolla: anzi se ne resta sospeso da cinquant’anni in una specie di stato intermedio, ben incarnato da una nuova parola d’ordine, cioè ‘crisi’. Questa lunga crisi appare fin da subito nella sua triplice dimensione economica, ecologica e politico-sociale. Ma prima ancora che fossero visibili nei numeri le tendenze di lungo periodo che vediamo oggi, c’erano stati diversi campanelli d’allarme.
Alcune voci critiche si erano già alzate nelle fasi di massimo dinamismo del paradigma: se i marxisti ortodossi non avevano abbandonato l’idea di un’instabilità strutturale del capitalismo, autori di altri orizzonti come Ellul, Mumford, i filosofi della scuola di Francoforte, il sociologo Vance Packard avevano denunciato in tempi non sospetti le esternalità negative del progresso tecnologico. Ma furono gli anni Sessanta l’incubatore di una nuova consapevolezza ecologica grazie al contributo di alcuni scienziati come Rachel Carson (Primavera silenziosa, 1962) e Barry Commoner (Science and survival, 1966). Alcuni economisti iniziarono a denunciare l’inadeguatezza degli strumenti di misura del benessere e degli obiettivi di sviluppo: Kenneth Boulding (The Coming Spaceship Earth, 1966), Ezra Mishan (Costs of economic growth, 1967), Dudley Seers (‘The meaning of Development’, 1970), senza dimenticare Nicholas Georgescu-Roegen con la sua teoria dell’entropia, resa nota proprio nel 1971, e il cui cinquantennale è stato celebrato l’anno scorso.
Furono però i movimenti spontanei di rivolta, come a Watts nel 1964 e a Parigi nel 1968, ad attirare l’attenzione delle istituzioni, perplesse di fronte a simili contestazioni mentre erano ancora convinte che il programma di modernizzazione stesse procedendo alla grande. Così ad esempio l’OCSE lanciò il suo programma di ricerca sulla ‘crisi della società moderna’ che ebbe almeno due effetti dirompenti. Il primo fu il rapporto The growth of output del 1970, coordinato da Cornelius Castoriadis: qui l’economista, che in segreto aveva animato il movimento rivoluzionario Socialisme ou Barbarie fino a pochi anni prima, denunciava per la prima volta in un documento ufficiale le sempre più insostenibili conseguenze sociali ed ecologiche dello sviluppo economico. Il secondo effetto, nel 1972, fu il Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato al MIT dal Club di Roma, che secondo lo storico Mattias Schmelzer deve tanto ai dibattiti in seno all’OCSE. Un rapporto che ebbe un successo straordinario, con quasi 30 milioni di copie vendute nel mondo, in grado di generare un dibattito esteso su delle tematiche fondamentali che fino a qualche anno prima erano materia solo per pochi visionari ed esperti. Negli anni successivi alla pubblicazione scienziati ed economisti furono costretti in un modo o nell’altro a prendere in considerazione le tesi del Rapporto del MIT, complice anche il clima sociale-politico degli anni ’70, dove un Occidente in difficoltà si trovava a fronteggiare diverse crisi energetiche e la nuova temutissima stagflazione.
Da queste riflessioni, nonché dal contributo di Socialisme ou Barbarie e della filosofia sociale tedesca, sorse un ulteriore dibattito, quello sulla crisi di legittimazione dell’ordine politico democratico: anch’esso ancora attuale, via via che diventa più difficile mantenere le promesse sul quale si è istituito quest’ordine.
Sul finire del decennio gli echi di queste tendenze culturali si manifestarono in parte nel famoso ‘discorso sul malessere’ del presidente americano Carter nel 1979, dove il capo della Potenza simbolo del capitalismo attaccò in diretta, davanti a milioni di persone, la logica del consumismo, l’eccessivo materialismo e l’american way of life ormai fuori controllo. Un attacco frontale a uno dei pilastri dello sviluppo moderno.
La reazione non si fece attendere; prima nel 1979 con Thatcher, poi nel 1980 con la vittoria di Reagan, le riflessioni sulle crisi della Modernità vennero ricacciate nell’ombra, derise e relegate in ristretti ambiti accademici, mentre la ‘follia neoliberale’, citando l’espressione di Castoriadis, ripristinava l’ottimismo necessario e obbligatorio per far marciare il Sistema, proteso verso le nuova globalizzazione degli anni ’90.Sono passati 50 anni da quelle riflessioni. Festeggiamo questi anniversari con una punta di amarezza: perché non soltanto da Castoriadis, da Georgescu-Roegen e dal rapporto del Club di Roma non abbiamo fatto molti passi avanti; ma pare addirittura che ne abbiamo fatto diversi indietro. La conoscenza sui fenomeni economici, sociali, ambientali è quantitativamente aumentata, ma è sul piano dell’immaginario – direbbe Castoriadis – che siamo fermi.
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