A seguito del boom economico che ha interessato l’Occidente e alla conseguente crescita dei consumi -e quindi anche di sprechi e rifiuti- diventa sempre più evidente al pubblico la necessità di tutelare l’ambiente. Infatti è fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 che nasce il termine ‘ecologia’ e inizia a strutturarsi l’ ‘ambientalismo’, 1 fino al concetto di ‘sostenibilità’ nel 1987. Il rapporto Brundtland definisce sostenibilità «assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri» 2. Con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’ONU, il concetto di sostenibilità acquista poi un’accezione non solo ambientale, ma anche sociale ed economica.
Includendo l’ambito sociale, la sostenibilità inizia a coinvolgere anche l’aspetto emotivo e la qualità ambientale percepita dalla popolazione che si ritrova sul proprio territorio un insediamento industriale colpevole di avere ‘rovinato’ visivamente un paesaggio a loro caro.
L’impatto visivo che un’opera antropica può generare sul territorio e soprattutto sull’uomo è una variabile fondamentale da cui nasce l’esigenza di controllo di tale aspetto.
Si «concepisce lo spazio e l’ambiente artificiale come matrice degli scambi relazionali tra il soggetto e il mondo che lo circonda. […] Fenomeni che appartengono all’interfaccia, ricca di valenza emozionale, che si stabilisce tra il soggetto e la realtà dell’ambiente artificiale […]. Infatti, parallelamente ai temi ecologici sostanziali, è oggi importante sviluppare anche un’ ‘ecologia dell’emozionalità’, poiché non può esserci vera sostenibilità ambientale senza un’estetica sostenibile» 3.
Diventa quindi indispensabile la gestione del rapporto fra insediamento industriale e territorio. Nasce da queste premesse lo studio sulla mitigazione visiva realizzato nel 2014 da FEEM.
Il paper mira a contribuire al dibattito sulla mitigazione visiva, tra l’attività antropica e il territorio attraverso uno studio multidisciplinare e orientato al design e a fornire linee guida/metodologia ai progettisti e ai policy maker per la coabitazione tra gli impianti industriali e la necessità dell’uomo di vivere in armonia con la natura.
La letteratura disponibile 4 e presa in considerazione presentava casistiche più indirizzate alla realizzazione ex-novo che alla mitigazione di opere già realizzate, mentre il campo di applicazione dello studio FEEM lavora su un caso specifico già esistente. Si è quindi cercato di applicare/modificare quanto scritto in letteratura e adattarlo al caso specifico.
Ma cos’è esattamente l’impatto visivo? Il dizionario Oxford Languages definisce «Impatto ambientale, il complesso delle trasformazioni indotte da un intervento urbanistico o da un insediamento industriale all’interno di un’area, spec. in quanto suscettibili di determinarne e prefigurarne il progressivo degrado». Si può quindi definire impatto visivo la parte di queste trasformazioni che coinvolgono specificatamente l’occhio, l’estetica, l’armonia visiva.
Armonia è ritmo, proporzione, accordo e può coinvolgere tutti i campi percettivi e sensoriali. La rottura del ritmo può generare reazioni positive o negative. Per esempio, facendo un parallelo con l’arte, gli espressionisti si distaccano dai canoni classici e dalle proporzioni armoniche del passato. La rottura con il ‘bello’, ossia con quelle caratteristiche accettate dalla maggior parte dei fruitori dell’opera, mira a creare disagio, a mettere l’uomo in contatto con le sensazioni primordiali e generare uno strappo con la realtà conosciuta, al fine di crearne una nuova.
Allo stesso modo un insediamento industriale calato in un paesaggio conosciuto genera una rottura del ritmo visivo e può creare una sensazione di disarmonia e quindi disagio. Colori, materiali, texture, rumori e odori non ordinari fanno sì che l’opera sia percepita come estranea, nemica, nociva.
Ecco perché accanto alla tutela più squisitamente ambientale, è necessario prestare attenzione anche alla sfera visiva, lavorando a minimizzarne gli impatti.
La mitigazione visiva di un’opera industriale è un processo complesso che coinvolge diverse discipline e professionalità (per es. ingegneri, architetti, designer, urbanisti, agronomi, tecnologi, ecc.). Le azioni di mitigazione devono inoltre coinvolgere stakeholder e popolazione locale, ascoltando le loro istanze e proponendo servizi ad essi dedicati.

Come mostrato in Figura 1, lo studio prevede 4 azioni:
- allestire significa lavorare sulle caratteristiche intrinseche degli edifici, enfatizzandone o camuffandone i tratti principali. Si agisce quindi sul design, sulla composizione architettonica, sulla tecnologia delle costruzioni manipolando colori, forme, materiali, sistemi architettonici/ingegneristici. Alla base di tutto ci sono le regole della percezione visiva. Allestire significa operare sulla parte estetico/visiva, sulla pelle dell’edificio;
- naturalizzare è un processo che coinvolge paesaggisti, botanici, agronomi e biologi nella scelta delle specie arbustive, erbacee e arboree adatte al luogo. La scelta non riguarda solo il campo visivo, ma anche criteri come stagionalità, manutenzione, resistenza, capacità di assorbimento dei possibili inquinanti delle piante. L’obiettivo è distribuire la vegetazione in modo armonico e in dialogo con l’opera e il contesto, in modo da annullare o creare una cerniera con il resto del paesaggio. La vegetazione può agire rendendo le aree attigue all’impianto fruibili; restituendo, almeno parzialmente, quelle qualità ambientali soft che rendono uno spazio piacevole. Per esempio è possibile creare dei vialetti alberati, dove ombra e profumi rendano lo spazio nuovamente abitabile;
- smartizzare significa dotare lo spazio di uno altro strato soft, fatto di tecnologia e servizi. L’obiettivo è mettere in relazione lo spazio con il capitale umano, intellettuale e sociale che abita l’area industriale e le aree attigue. Utili a questa azione possono essere discipline quali il service e strategic design, la pianificazione urbanistica e territoriale, l’ecologia e la sostenibilità ambientale. Si può quindi operare sullo spazio industriale creando per esempio un sistema di mobilità sostenibile che metta in relazione tutte le sue parti; allestendo i nuovi percorsi con illuminazioni, panchine, sistemi wi-fi e nuove tecnologie a servizio di nuove attività offerte dall’area come per esempio percorsi di formazione con varie tematiche (botanica, energia, biologia, ecc.); visite guidate, navigazione e fruizione 3D degli spazi, ecc. Tutto ovviamente energeticamente efficiente e autosufficiente;
- diffondere significa far conoscere l’area e i suoi servizi all’esterno. Un’area industriale progettata o trasformata secondo quanto detto, può generare valore aggiunto alla sua attività primaria. Le azioni mitigative, che rendono più accettabile l’opera, creano qualità e quindi devono essere comunicate attraverso politiche di informazione. Gli strumenti sono vari come pubblicità, segnaletica, engagement dei fruitori attraverso progetti partecipativi, interagendo con le scuole e proponendo formazione a tutti i livelli. Le discipline coinvolte passano dal marketing alle scienze della comunicazione alla divulgazione, dal graphic design alla Green economy.
Conclusioni
Uno spazio industriale riarmonizzato -o progettato sin dall’inizio per essere armonico- può essere comunicato come una buona pratica e come ‘motivazione’ a creare dialogo e sperimentazione su esso, progettando nuove buone pratiche con la cittadinanza, gli stakeholder e magari con il capitale umano attirato dall’esterno. L’obiettivo? Ridare lo spazio industriale al luogo, al paesaggio, alla società. Rendere l’opera accettabile, meno minacciosa.
Non più astronavi aliene calate dall’alto, ma spazi progettati con il luogo e per il luogo. È innegabile che non si può prescindere dalle attività industriali, ma questo non vuol dire che esse debbano deturpare ambiente e paesaggio.Abbiamo a nostra disposizione gli strumenti per agire con Azioni “concrete”, ossia visibili e percepibili anche dalla popolazione o dai non addetti ai lavori, che possono rendere più sostenibile la presenza delle opere antropiche: trasformare un’area, seppur industriale, in uno spazio aperto, comunicativo, non ostile è la strada che, come è documentato da diversi casi studio, è stata ampliamente sperimentata dando ottimi risultati in diverse parti del mondo.
Note
- G. Nebbia, “Per una definizione di storia dell’ambiente”, in “Ecologia politica CNS – rivista telematica di politica e cultura”, n. 3 – settembre-dicembre 1999, Anno IX, fasc. 27 http://www.ecologiapolitica.org/web/3/articoli/nebbia.htm
- V. Balocco, “Sostenibilità: significato, obiettivi e perché è importante”, in “I pillar di ESG360”, pubblicato il 6/9/2021
- C. Trini Castelli, “Design Primario – Le forme dell’immateriale” in Corso “Design Primario”, a.a. 08-09, Politecnico di Milano, http://www.castellidesign.it/hall/hall.php
- Bibliografia studi pregressi:
- C. Socco, A. Cavaliere, S.M. Guarini, “Le Frangie periurbane”, in “Working paper P12/07”, Osservatorio Città Sostenibili, Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico e Università di Torino, pag.3
- Provincia Milano, “PTCP. Adeguamento di alla LR 12/2005. Repertorio delle misure di mitigazione e compensazione paesistico-ambientali”, 6/2012
- G. Nardin, P. Simeoni, C. Bianco, C. Pantanali; “Architettura ed impatto visivo degli impianti di termo-valorizzazione dei rifiuti” in “Quarto Convegno Nazionale: Utilizzazione termica dei rifiuti, Abano Terme 12-13/6/ 2013”