Dicembre 2021 – I conflitti ambientali hanno guadagnato sempre più spazio nel dibattito pubblico argentino grazie al rapporto che i ricercatori e gli attori coinvolti sono riusciti a costruire tra loro. La ripresa dell’azione sociale passa attraverso la partecipazione a processi di conoscenza collettiva e al recupero dei saperi locali.
La sociologia in Argentina
La presenza della sociologia nel dibattito pubblico in America Latina, a differenza di quanto accade nel mondo anglosassone, è caratterizzata da una forte relazione tra il mondo accademico e una vasta arena di cui fanno parte movimenti sociali, forum di discussione, proteste e interventi pubblici.
In questa regione del mondo, una relativa autonomia in campo scientifico e culturale si è espressa, negli anni Sessanta e Settanta, con la presenza di vere e proprie contro-élite. Sebbene questo processo di relativa autonomia abbia avuto un momento di sospensione durante il periodo delle dittature militari, esso ha lasciato un’impronta che continua a essere presente nella cultura e nel ruolo che l’università e gli istituti di ricerca svolgono nella vita pubblica. A partire dagli anni Ottanta, come forma di collaborazione decisiva ai processi di apertura democratica avvenuti nella regione, sono stati costruiti campi politico-accademici che hanno combattuto battaglie insieme a movimenti sociali, sindacati e partiti politici allo scopo di avviare e costruire un dibattito pubblico. Attualmente, queste parti in causa richiedono al mondo scientifico di non risolvere solo i problemi posti dall’alto, ma di costruire un luogo in cui si generano domande sul rapporto tra conoscenza e poteri costituiti. Qui gli scienziati sociali propongono idee che vengono discusse e contestate da politici, attivisti, esperti, funzionari pubblici e una molteplicità di attori sociali. In questi momenti viene messo in discussione il ruolo che gli accademici dovrebbero occupare nella società.
In Argentina, questa situazione è caratterizzata anche da un alto livello di politicizzazione della vita accademica grazie a un modello di co-governo universitario che viene istituito con elezioni aperte a cui partecipano studenti, professori e lavoratori non docenti. Questa esperienza produce una commistione tra la partecipazione a partiti politici e movimenti sociali e l’insegnamento e la ricerca, aspetto, questo, che segna anche la forte presenza dell’università nei dibattiti pubblici. A ciò contribuisce l’esistenza di un consenso intorno alla difesa del diritto all’educazione come bene pubblico, che definisce l’istruzione gratuita come diritto non negoziabile.
Negli ultimi vent’anni ho condotto ricerche e promosso cause di risarcimento per danni ambientali. Inoltre, ho preso parte a varie campagne di sensibilizzazione sui problemi dell’inquinamento, partecipato a diverse assemblee che si oppongono all’installazione di miniere a cielo aperto e ho seguito alcune proteste il cui scopo era l’emanazione di leggi sulla salvaguardia dell’ambiente. Un elemento comune di queste azioni collettive è che rappresentano forme di risposta all’espansione delle attività economiche che comportano un’estrazione intensiva di risorse, il proliferare delle discariche e i rischi di contaminazione per coloro i quali trovano sostentamento materiale nell’ambiente 1. Le istanze di questi gruppi sollevano interrogativi sul valore dell’acqua, del territorio, del paesaggio e della salute considerati beni pubblici. Sono spazi di sperimentazione sociale che mettono in relazione in forma nuova gli obiettivi della giustizia ecologica con le antiche esigenze di giustizia sociale. La mia attività di ricerca si è interrogata su come i diversi conflitti ambientali siano riusciti ad attrarre l’attenzione, a diventare oggetto di interesse sociale e a guadagnare spazio nel dibattito pubblico.
Il tema che pongo – e questo marca una forte distinzione con la sociologia nel mondo anglosassone – è che, data la natura pubblica che assume la costruzione di alcuni problemi di ricerca, la presentazione dei risultati avviene in un contesto in cui il dibattito è già connesso ad altri ambiti decisionali. In molte occasioni sono le persone a mettere in discussione il ruolo delle agenzie statali e delle imprese in termini di produzione di co noscenza, aprendo un dibattito sulla posizione del ricercatore rispetto ai temi in gioco. Così, nel presentare i risultati, sorgono dibattiti che, anche se tengono conto dei dati, in realtà mostrano l’interesse delle persone per porre domande circa le implicazioni politiche delle ricerche e sul ruolo della conoscenza scientifica nella costruzione di visioni e mondi alternativi.
Quando i risultati della ricerca vengono discussi pubblicamente
Qualche anno fa, con un gruppo di autori, abbiamo pubblicato due volumi di un’opera collettanea chiamata Cartografie del conflitto ambientale in Argentina 2. I testi includono i risultati di un progetto di ricerca collettiva che, partendo da un approccio comune, analizza il processo di formazione degli attori collettivi e delle loro richieste in seno alla questione ambientale. I testi presentano narrazioni di casi studio la cui selezione è il risultato di diversi processi di collaborazione con gruppi e organizzazioni ambientaliste.
Le opere che compongono questo lavoro collettaneo illustrano esperienze forti, in cui i diversi gruppi si oppongono all’apertura di miniere a cielo aperto, protestano con i settori più competitivi nella produzione agricola alleati con multinazionali come la Monsanto e respingono le speculazioni immobiliari che alterano bacini idrici e paludi, per fare solo alcuni esempi. La caratteristica comune di queste proteste è che riescono a fermare i progetti per un certo periodo, invocando la legge e ottenendo ordinanze comunali di regolamentazione e/o realizzazione della delimitazione delle zone che vogliono tutelare. Si tratta di soluzioni provvisorie che generalmente non consentono di chiudere il conflitto ma che rappresentano importanti risultati di queste battaglie per la giustizia ambientale.
Partendo da un approccio comune che rispetta l’unicità delle diverse esperienze, lo scopo di queste cartografie è identificare i territori del conflitto, seguire gli attori nei loro raggruppamenti e analizzare le controversie per stabilire come si costituiscono i problemi collettivi. Una chiave di lettura comune nel testo è che i conflitti si muovono nel tempo e nello spazio, producendo trasformazioni in altre sfere della vita sociale, aspetto che chiamiamo «produttività del conflitto».
Poiché il libro è stato pubblicato in open access da CLACSO, la sua divulgazione è stata ampia tra i gruppi ambientalisti 3. Ciò significa che la presentazione degli articoli in diverse tavole rotonde, workshop e conferenze attira pubblici diversi, in particolare gli attori che hanno una partecipazione attiva e si sono costituiti parte civile in questi conflitti. In tali occasioni, gli attivisti di assemblee cittadine ambientaliste prendono la parola, promuovendo preziosi scambi con i ricercatori e ponendo nuove domande sui risultati.
Un punto interessante di queste discussioni è che i nostri interlocutori hanno già letto parti del libro e, in alcune occasioni, affermano di averlo utilizzato come materiale formativo. Ma ancora più interessante è che essi si sono formati opinioni precise sui vari temi partecipando a processi di conoscenza collettiva volti al recupero dei saperi locali. Quando si tratta di identificare le cause dei danni all’ambiente o alla salute, è comune per i residenti e le organizzazioni territoriali, con l’aiuto di gruppi di esperti, sviluppare diverse indagini per stabilire le origini del problema che li colpisce. Queste indagini incorporano l’epidemiologia popolare 4, con la realizzazione di «campi sanitari», la partecipazione di medici coinvolti nelle lotte ambientali e la realizzazione di campagne informative con volantini, libri divulgativi e materiale cinematografico. In alcuni casi, gli attori hanno familiarità con la letteratura sulla cittadinanza attiva che evidenzia il ruolo che l’attivismo svolge nella produzione di conoscenza 5.
Una categoria che utilizziamo nella ricerca e che richiama l’attenzione del pubblico è quella che si riferisce alla produttività dei conflitti ambientali. Forse perché consente di mettere in relazione le esperienze di produzione di conoscenza locale con i risultati della ricerca e promuove una riflessione su possibili scenari futuri. In queste occasioni sono due le situazioni che tendono a ripresentarsi: o la discussione sulla produttività dei conflitti può portare ad alcune incomprensioni e quindi obbliga a chiarimenti da parte dei ricercatori oppure, in situazioni in cui vi è una maggiore apertura al dibattito, i partecipanti utilizzano il concetto come strumento analitico.
In relazione al primo punto, a volte si fa confusione con la categoria della produttività, poiché essa crea un certo malinteso essendo associata agli effetti positivi di un conflitto. E qui va detto che nella percezione soggettiva di molti di questi partecipanti, essere parte del conflitto ha significato avere un impatto negativo sulla loro vita quotidiana, generando costi personali e familiari spesso elevati e persino, in alcune occasioni, essere oggetto di azioni di criminalizzazione e di protesta sociale. Il conflitto non è positivo di per sé per le persone e non permette sempre di migliorare le loro condizioni di vita, ma è un campo di azione che, in determinate circostanze, produce effetti istituzionali politici, sociali, legali nel sistema delle relazioni sociali.
Di fronte a questa aspettativa sul positivo e il negativo del conflitto, il nostro compito di analisti sociali impone di seguire la dinamica di un conflitto nel tempo, considerando che si tratta di eventi che non hanno una chiusura definitiva in termini di risoluzione sociale del problema. Molte volte le autorità, i funzionari, gli esperti e/o i promotori dei progetti danno per scontato che gli attori del conflitto possano o debbano raggiungere un accordo sull’oggetto della controversia, che potrebbe ridursi a un unico punto di vista equamente condiviso tra i partecipanti. Da un punto di vista sociologico, assumere «a priori» che tutti debbano essere d’accordo ci impedisce di vedere le condizioni di produzione di questo conflitto. Il fulcro della controversia è parte di un «malinteso controllato» in cui può esistere un’interpretazione diversa di termini simili con significati differenti per ciascuna delle parti in conflitto 6.
Per comprendere la posta in gioco in questi conflitti è necessario andare oltre la narrazione degli eventi e concentrarsi sulle trasformazioni che essi generano nel sistema delle relazioni sociali. Analizzare la produttività di un conflitto implica pensare a cosa, come analisti sociali, possiamo imparare dai suoi risultati più duraturi. I conflitti consentono di aprire un dibattito pubblico, generare apprendimento sociale e, soprattutto, sono momenti di socializzazione politica e giuridica. Ciò non implica sostenere che produttività sia sinonimo di risultato positivo e vi sono situazioni in cui le asimmetrie di potere che danno origine al conflitto non si modificano, anzi si rafforzano.
Entriamo ora nel secondo aspetto che riguarda l’utilizzo di diverse forme di produttività e strumenti di analisi, dove solitamente proponiamo esercizi comparativi ricorrendo all’uso di grafici, info-grafiche, diagrammi e mappe. Questi dispositivi consentono di condividere casi diversi e mostrare perché alcuni effetti si sono verificati in alcuni casi e non in altri. È importante dire che nel libro ci sono molti esempi di questa produttività, siano essi analisi che mostrano gli impatti di un conflitto sul territorio (per esempio, la creazione di nuove aree protette), o sulla legalizzazione (normative che in precedenza non venivano applicate o anche modifiche di regolamenti) o in termini istituzionali (meccanismi istituzionali di partecipazione, creazione di nuovi organismi ecc.). In questi casi si genera un processo di traduzione relativamente positivo poiché i partecipanti utilizzano le categorie per applicarle a nuovi casi ampliando la nostra casistica e producendo interessanti discussioni che ci permettono di mappare diverse forme di produttività.
Le situazioni più interessanti si verificano quando la discussione si sposta in una nuova area dove c’è un processo di ridefinizione dei concetti analitici. Una volta un partecipante mi disse che il modello di analisi era utile ma mancava di incorporare la produttività nel sistema politico, cioè in che modo un conflitto di portata regionale può incidere sulla costituzione di un movimento sociale, come il caso della cosiddetta «guerra dell’acqua» in Bolivia, che ha rappresentato un passaggio fondamentale per la costruzione del potere politico del Movimento per il Socialismo (MAS, Movimiento al Socialismo) in vista dell’elezione che poi ha consacrato Evo Morales presidente. In effetti, il nostro schema di analisi funziona molto di più a livello locale/regionale e meno a livello regionale/nazionale e questo perché non abbiamo abbastanza casistica per fare questo tipo di analisi. Ma è stato questo suggerimento che mi ha permesso di ripensare lo schema di analisi incorporando nuove categorie per analizzare gli effetti dei conflitti ambientali sul sistema politico.
Il posizionamento politico
Gli attori che compongono le assemblee e realizzano campagne per inserire determinate questioni nell’agenda pubblica sono ben consapevoli che il loro compito è quello di trasmettere il loro messaggio a gruppi più ampi.
Nelle definizioni e nelle grammatiche dell’azione collettiva delle assemblee cittadine ambientali, tutto questo si riassume in un programma d’azione che ha come slogan la lotta contro l’estrattivismo. È una definizione che comprende aspetti molto diversi tra loro come la proposta di forme di produzione agroecologica, la rivendicazione dell’autodeterminazione dei popoli, le diverse visioni dell’eco-femminismo, la difesa dei modi di vita dei popoli indigeni e la più ampia discussione sui concetti del buen vivir, come definito nelle costituzioni e nei dibattiti dei diversi gruppi in Bolivia ed Ecuador.
Queste definizioni evocano la lotta per l’inclusione dei popoli dell’America Latina, proprio per questo definiscono la posizione degli attori in gioco in una relazione subordinata nel mondo coloniale moderno. Nelle parole di questi attori, l’America Latina è stata sottomessa all’espansione del capitale, al fine di contribuire con risorse umane e naturali al processo di accumulazione, che sia nel passato come nel presente comporta l’esproprio dei territori. Così, lottare contro l’estrattivismo significa anche lottare contro i processi di colonizzazione.
Il dialogo politico che possiamo instaurare tra ricercatori e attivisti deve andare verso una maggiore riflessività condivisa in termini di comprensione del processo in cui siamo immersi come attori sociali. Per comprendere i conflitti, cerchiamo anche di indagare le condizioni locali e regionali in cui è resa possibile la presenza di industrie estrattive. Oltre al ruolo dello Stato, è importante riconoscere i diversi fattori storici, sociali e politici dei contesti analizzati. Per esempio, la grande estrazione mineraria è avanzata nelle province argentine che si trovano nella regione delle Ande, eccetto a Mendoza, dove c’è una tradizione di amministrazione dell’acqua da parte degli agricoltori. All’inizio di questo secolo, nonostante ci fossero processi di appropriazione diseguale dell’acqua, sono state le élite locali a non consentire l’avanzata dell’estrazione mineraria. Per questo è importante individuare elementi del contesto socio-politico regionale, in modo tale da poter soppesare altri fattori, considerando la complessità dei fenomeni ed evitando di cadere in un esercizio di sovrageneralizzazione che è un ostacolo non solo per i ricercatori, ma anche per qualsiasi attore politico che voglia analizzare il suo quadro di azione.
Sulla natura pubblica del lavoro sociologico
Tutti questi scambi sono opportunità straordinarie per stabilire connessioni tra il nostro corpus sociologico e le modalità di interpretazione prodotte dai diversi attori sociali che ci coinvolgono nelle loro esperienze collettive. Il compito di rendere udibili i risultati della ricerca al di fuori dei circoli accademici diventa praticabile a condizione che siamo disposti ad accettare ed esporci a situazioni in cui la conoscenza che produciamo può essere confutata dagli attori che studiamo.
Tuttavia, questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per partecipare al dibattito pubblico. Una seconda condizione importante è che si possa generare un’area di deliberazione in cui gli argomenti reciproci entrino a far parte di un nuovo quadro di intelligibilità in cui i risultati possano essere messi in discussione, dibattuti e riutilizzati7.
Per generare questo nuovo spazio di scambio è necessario riformulare le domande di ricerca, questa volta non per intraprendere un nuovo studio ma per tenere conto di una pluralità di punti di vista, domande e possibili risposte. Sebbene il nostro ruolo di analisti sociali non sia quello di formulare raccomandazioni finali su possibili linee d’azione, non possiamo non prendere posizione quando diventiamo parte attiva di questi conflitti.
L’esperienza che ho presentato può essere intesa come un’area di produzione di conoscenza che Michel Callon, Pierre Lascoume e Yannick Barthe 8 chiamano forum ibrido, cioè un’area di deliberazione in cui pubblici eterogenei, che sono anche portavoce di gruppi diversi, mescolano e giustappongono diversi tipi di conoscenza (accademica ed extra-accademica), che si combinano in diversi registri di analisi: razionalità politiche, accademiche, tecniche, culturali e religiose, ecc.
Il confronto prevede un dibattito aperto in cui gli attori coinvolti mettono in discussione l’uso dei concetti proposti o evidenziano un disallineamento rispetto a una posizione politica che hanno precedentemente assunto e dove hanno addirittura definito chi sono i loro alleati e su quali piattaforme agire. Per questi interlocutori, la questione più importante è sapere fino a che punto il nostro lavoro può svolgere un ruolo ausiliario rispetto alle posizioni precedentemente assunte. Il confronto si fa più teso quando ci si aspetta che i ricercatori prendano nette posizioni di adesione a certi movimenti, cosa che a volte facciamo ma non sempre. A questo punto il confronto delle idee entra nel campo della discussione politica aperta: qui è importante sapere che questo è uno degli esiti possibili quando si tratta di presentare i risultati della ricerca in un’area in cui partecipano anche gli attivisti sociali.
Quando presentiamo le nostre idee e le confrontiamo con quelle degli altri attori coinvolti, possiamo dire che avviene un processo di transazione, cioè un processo di migrazione di categorie che facilita la riformulazione del problema di ricerca. Ciò è possibile perché queste nuove questioni si costruiscono a partire da un universo di riferimento condiviso con gli altri attori coinvolti nel dibattito politico e accademico. Come già sottolineato, molti degli attivisti di questi movimenti conoscono e sono lettori critici della letteratura sulle scienze sociali. Formandosi nella critica delle scienze sociali latinoamericane, sanno qual è il compito del ricercatore, e cosa ci si può aspettare da uno studio sociologico, tanto più che alcuni di loro studiano all’università.
Sono vicina ad autori come Arturo Escobar 9, che sostengono la necessità di rendere esplicita la dimensione ontologica presente nei conflitti ecologici. Si tratta di una riflessione che ci conduce a quello strato fondamentale dell’esistenza dove è coinvolto il rapporto tra pensiero e costruzione dei mondi. Per gli accademici che studiano i conflitti e vanno incontro a questi mondi, la questione di aprirsi al pubblico è anche un modo diverso di modificare l’esistenza.
Fonte/Testo originale: Gabriela Merlinsky, ‘Argentina. Le scienze sociali nei conflitti ambientali’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, dicembre 2021, Il Mulino.
Note
- R. Guha e J. Martinez-Alier, Varieties of Environmentalism. Essays North and South, London, Earthscan, 1997.
- M.G. Merlinsky, Cartografías del Conflicto Ambiental en Argentina, Buenos Aires, Editorial CIC CUS/CLACSO, 2014. Disponibile online all’indirizzo http://biblioteca.clacso.edu.ar/clacso/ se/20140228033437/Cartografias.pdf; Ibidem, Cartografías del Conflicto Ambiental en Argentina 2, Buenos Aires, Editorial CICCUS/CLACSO. Disponibile online all’indirizzo http://www.clac so.org.ar/libreria-latinoamericana/libro_detalle.php?orden=&id_libro=1177&pageNum_rs_ libros=0&totalRows_rs_libros=1121.
- La Unión de Asambleas Ciudadanas (UAC) è uno spazio di incontro e organizzazione di assemblee socio-ambientali, tra contadini, popoli indigeni e organizzazioni autonome, nato in Argentina e cresciuto anche in Uruguay, Paraguay, Brasile e Cile. Nelle parole di uno dei suoi partecipanti: «è uno spazio che si riunisce due volte l’anno in luoghi diversi secondo decisioni collettive, per scambiare, discutere e proporre azioni comuni, con l’obiettivo di difendere la natura, i diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli». Funziona come una vasta rete di organizzazioni che si è formata nel 2006 a seguito del Forum Nazionale dei Popoli Ambientalisti Autoconvocati tenutosi a Córdoba, in Argentina.
- P. Brown e E.J. Mikkelsen, No Safe Place: Toxic Waste, Leukemia, and Community Action, Berkeley, University of California Press, 2002; M. Akrich, Y. Barthe e C. Rémy, Sur la piste environnementale. Menaces sanitaires et mobilisations profanes, Paris, Presses des Mines, 2013.
- E. Woodhouse et al., Science Studies and Activism: Possibilities and Problems for Reconstructivist Agen das, in «Social Studies of Science», vol. 32, n. 2, pp. 297-319.
- E. Viveiros de Castro, Métaphysiques cannibales, Paris, PUF, 2009.
- D. Fassin, Why Ethnography Matters: On Anthropology and Its Publics, in «Cultural Anthropology», vol. 28, n. 4, 2013, pp. 621-646.
- M. Callon, P. Lascoumes e Y. Barthe, Agir dans un monde incertain. Essai sur la démocratie technique, Paris, Seuil, 2001.
- A. Escobar, Sentipensar con la tierra. Nuevas lecturas sobre desarrollo, territorio y diferencia, Medellín, Universidad Autónoma Latinoamericana Unaula, 2014.