Gli attori privati per l’Agenda 2030

Da dove ha origine l'importanza degli attori privati?

Autore

Eric Rosenthal

Data

16 Gennaio 2024

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5' di lettura

DATA

16 Gennaio 2024

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Attori privati per l’Agenda 2030: da dove origina la loro importanza?

«Gli Obiettivi Globali possono essere raggiunti solo se lavoriamo insieme». È così che recita il sito web del diciassettesimo e ultimo Sustainable Development Goal (SDG) dell’Agenda 2030, la risoluzione internazionale sullo sviluppo approvata all’unanimità il 25 settembre 2015 da tutti i 193 membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Agenda 2030 comporta una serie di priorità globali volte a raggiungere la pace e la prosperità sia per le persone che per il Pianeta attraverso una strategia di sviluppo globale entro il 2030, e già nel preambolo viene riconosciuta la necessità di una forte collaborazione tra il settore pubblico e quello privato per raggiungere questi ampi obiettivi. Proprio per questo motivo l’SDG 17, che chiede di «rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile», promuove la creazione di un quadro globale comune all’interno del quale possano cooperare più soggetti, sia del settore pubblico che di quello privato. La sfida proposta dalle Nazioni Unite, dunque, non è solo quella di portare gli attori pubblici – ossia Stati e organizzazioni internazionali – e privati – cioè multinazionali, ong e movimenti globali – a lavorare insieme per lo sviluppo dei Paesi che dipendono fortemente dagli aiuti esteri, ma anche di assicurarsi che questo sviluppo sia sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale.

Sorge tuttavia una domanda: quali sono le ragioni sistemiche che hanno spinto le Nazioni Unite, e con esse i suoi Stati membri, ad abbracciare un approccio di governance globale ibrido, che ha portato all’istituzione del partenariato tra pubblico e privato (PPP)? In altre parole: per quale motivo il settore privato è stato identificato come un attore così essenziale? Le letterature accademiche delle relazioni internazionali, di economia politica internazionale e di economia dello sviluppo si sono ampiamente interessate all’argomento e sono giunte a identificare tre principali cause che spiegano l’origine di tale decisione: la prima concerne la focalizzazione dell’Agenda 2030 sulla crescita economica e dal conseguente ruolo di spicco che il settore privato può occupare; la seconda riguarda i meccanismi di lobbying, tanto degli Stati occidentali che delle aziende stesse, di privatizzare, deregolamentare e liberalizzare lo sviluppo sostenibile; la terza, infine, spiega che il settore privato, in un processo iniziato quarant’anni fa, ha acquisito sempre più importanza ed è diventato un agente attivo e consapevole per la lotta al cambiamento climatico. 

Analizzando la prima ragione, si può notare che la crescita economica è un tema che ricorre più volte nell’Agenda 2030, in quanto viene citata tredici volte nella risoluzione, a significare che gli Stati membri ritenevano di non poter raggiungere lo sviluppo in modo sostenibile senza affrontare le questioni inerenti alla povertà e alle disuguaglianze globali. Durante i negoziati lo sviluppo sostenibile e la crescita economica erano visti come due risultati complementari; va comunque sottolineato che l’Agenda auspica una crescita economica che sia ‘inclusiva’ e ‘sostenibile’, combinando quindi logiche di competizione a pratiche sostenibili per il raggiungimento degli SDG. La logica secondo cui sarebbero stati proprio gli attori privati – e le aziende in particolare – a incentivare questo paradigma dilagava tra le delegazioni degli Stati occidentali e la stessa co-presidenza dell’Assemblea generale. Si argomentava, infatti, che il settore privato possedesse numerose caratteristiche peculiari senza le quali sarebbe stato impossibile garantire il successo dell’Agenda. Tra le principali, veniva spesso citata la capacità di creare nuovi posti di lavoro, di sviluppare nuove tecnologie e di generare capitali ed entrate fiscali, che sono le forze fondanti per il miglioramento dell’economia, della società e dell’ambiente dei Paesi in via di sviluppo. Il settore privato, inoltre, è unico per le sue competenze, conoscenze e risorse finanziarie, grazie alle quali reagisce con maggiore prontezza alle sfide rispetto agli Stati.

Relativamente alla seconda ragione, molti studiosi sostengono che l’inclusione del settore privato nei negoziati dell’Agenda 2030 non sia altro che un tentativo dei Paesi e delle imprese occidentali di privatizzare lo sviluppo attraverso meccanismi di lobbying, ingannando di fatto la comunità globale nel pensare che gli attori privati siano cruciali per la realizzazione degli Obiettivi. Alcuni accademici di economia politica internazionale criticano i PPP poiché sostengono che siano un’invenzione neoliberale progettata per rafforzare l’influenza degli interessi privati nell’economia politica globale, in particolare nelle nazioni povere. Alcuni sostengono persino che le alleanze pubblico-privato sponsorizzate dalle Nazioni Unite siano un mezzo per attirare interessi di settore all’interno dell’organizzazione e consentire così al settore privato di capitalizzare sulla buona volontà dell’ONU. Questo andamento, a lungo andare, genera un ‘circolo vizioso di indebolimento degli attori pubblici’: le lobby aziendali, le politiche fiscali che favoriscono le imprese, l’elusione e l’evasione fiscale si combinano per danneggiare in modo significativo il settore pubblico e la sua capacità di fornire beni e servizi di base; a loro volta, i sostenitori della privatizzazione e dei PPP sfruttano questi fallimenti per sostenere che il settore privato sia un’opzione superiore che dovrebbe essere ulteriormente rafforzata. Il ciclo continua, e il settore pubblico finisce per diventare più debole di quello privato.

Infine, rispetto alla terza ragione, molti studiosi sostengono che l’istituzionalizzazione dei PPP sia nata da un fallimento: gli Stati e le organizzazioni intergovernative non sono riusciti ad affrontare le sfide dello sviluppo globale sancite dai Millennium Development Goals, principalmente per le lentezze burocratiche, la mancanza di risorse e la poca rappresentazione di alcuni attori emergenti all’interno dei processi di governance globale. Per superare questi problemi, la partecipazione attiva degli attori non statali ha iniziato a essere considerata, soprattutto dai Paesi sviluppati, essenziale per il raggiungimento degli SDG. Allo stesso tempo, anche gli attori non statali hanno cercato di inserirsi nei processi di governance globale, dando vita a una forma ‘ibrida’ che ha adottato appieno il concetto di universalità tanto richiesto durante le negoziazioni. Con l’adozione degli SDG nel 2015, infatti, il ruolo del settore privato è cambiato, da semplice ‘donatore’ a vero e proprio ‘attore’. Si parla ora di ‘sviluppo a grande D’, perché i soggetti privati guidano essi stessi le iniziative di sviluppo e collaborano con gli attori pubblici come contributori paritari. Piuttosto che uno strumento di sviluppo, il settore privato viene visto come un agente di sviluppo impegnato consapevolmente. Le aziende sono allora motivate dalle preoccupazioni, dalle pressioni e dalle richieste degli stakeholder, a differenza del vecchio approccio allo sviluppo basato sul business-as-usual, influenzato da meri calcoli manageriali relativi a costi, profitti e concorrenza.

Queste tre ragioni sembrano molto diverse tra loro. Ognuna di esse, però, spiega solo uno specifico lato della questione, visto con lenti – intese come teorie delle dottrine politiche – e approcci diversi: i neoliberali vedono l’inclusione del settore privato come traguardo fondamentale per il potenziamento delle logiche di mercato all’interno delle dinamiche di sviluppo sostenibile; i neomarxisti svelano le intenzioni maligne del Nord globale atte a sfruttare il Sud globale; e i costruttivisti studiano come il concetto di ‘attore privato’ si sia gradualmente affiancato a quello di ‘attore pubblico’ fino a creare un costrutto ibrido di governance globale approvato dalla maggioranza della comunità globale. In realtà, tutte queste visioni sono tra loro interconnesse, e se analizzate assieme possono dare un quadro più esaustivo di quanto accaduto effettivamente durante i negoziati dell’Agenda 2030. 

Le entità statali, da ormai quarant’anni, stanno osservando un cambiamento graduale nei processi globali di governance per cui nuovi attori privati transnazionali sono progressivamente arrivati a occupare ruoli cruciali per la disposizione e protezione di beni comuni globali (come appunto lo sviluppo sostenibile). A sua volta, la crescente importanza del settore privato nell’arena di governance globale spiega perché la crescita economica sia diventata così rilevante nello sviluppo sostenibile negli ultimi decenni. In quanto agenti attivi dello sviluppo sostenibile, infatti, gli attori privati hanno provato a plasmare in modo progressivo l’agenda globale attraverso il loro potere di lobbying, che è inevitabilmente aumentato. Dopotutto, è stato chiaramente visibile come, durante i negoziati, la crescita economica e lo sviluppo tecnologico siano state al centro della visione delle entità private, ed è stato spesso detto che per sradicare la povertà e creare uno sviluppo inclusivo, l’economia doveva espandersi. Ecco allora la risposta alla domanda iniziale: la ricerca della crescita economica per lo sviluppo ha reso gli attori privati sempre più importanti, aumentando la loro capacità di influenzare a loro favore i processi di governance e favorendo i discorsi sulla necessità della crescita economica, e così via in una spirale crescente.

È dunque la fine per le politiche di sviluppo puramente statali? Le Nazioni Unite verranno d’ora in poi comandate dalle multinazionali, ormai lasciate a piede libero? Catastrofismi a parte, gli studiosi sono ancora certi del ruolo cruciale che gli Stati hanno nell’influenzare l’arena globale, nonché del potere decisionale di plasmare le politiche di sviluppo dell’Onu, che resta comunque un’organizzazione intergovernativa. Il coinvolgimento delle entità private è stato fortemente promosso dagli attori pubblici, ma questo non significa che godano di un sostegno incondizionato che gli permette di influenzare le pratiche di governance a loro piacimento: il loro ruolo è ora istituzionalizzato come ‘agenti consapevoli dello sviluppo’ quindi sono tenuti ad aderire ai quadri giuridici internazionali dell’Onu come qualsiasi altro attore coinvolto.

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