Dicembre 2018 – Nonostante l’apertura a un certo pluralismo politico, il cui risultato è una forma di «democrazia minima», i Paesi dell’Africa sub-sahariana devono fare i conti col fatto che il controllo delle risorse è ancora nelle mani delle vecchie élite politiche. Le istituzioni che dovrebbero garantire la transizione alla democrazia e promuovere lo sviluppo sono ancora troppo deboli. C’è spazio per una «democrazia neopatrimoniale»?
Introduzione
Quella che è stata definita da Huntington la «terza ondata» di democratizzazione1, a partire dai primi anni Novanta, ha aperto al pluralismo politico nell’Africa sub sahariana. Considerata come una «seconda in dipendenza» ha, in realtà, messo in evidenza una serie di elementi problematici, pur avendo prodotto significativi risultati in termini di ampliamento tanto dei sistemi istituzionali democratici quanto di rafforzamento dei diritti civili. In molti casi il pluralismo ha dato luogo a forme di democrazia «minimale»2. Secondo Richard Joseph, la trasformazione democratica ha spesso determinato una «democrazia virtuale» o «pseudodemocrazia», dove i livelli di partecipazione democratica sono più formali che reali3.
Contestualmente le riforme economiche attuate fin dai primi anni Ottanta, attraverso i Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS) hanno mostrato nuove e difficili questioni sociali, piuttosto che risolvere i gravi problemi economici dei Paesi africani. Dalla fine degli anni Ottanta, l’agenda della (good) governance è diventata un principio guida dei donatori, i quali domandano politiche efficienti e il rafforzamento della democrazia ai governi che richiedono assistenza economica4. Ciò ha favorito, al tempo stesso, la formazione di una «democrazia includente», che non esclude quindi ampi settori della popolazione. In questo quadro, il concetto di (neo)patrimonialismo è diventato rilevante nella riflessione sullo Stato in Africa: preminente negli studi sullo sviluppo politico dagli anni Settanta, è stato utilizzato per spiegare il mancato sviluppo economico e l’instabilità politica, accompagnati da una dose di pessimismo sulle transizioni democratiche considerate deboli5. Molti analisti hanno concluso che difficilmente i cambiamenti nelle istituzioni politiche formali avrebbero trasformato le strutture profonde che alimentano la cosiddetta «politica del ventre»6 e forme radicate di «governo personale»7, dato che il neopatrimonialismo ha consentito a una borghesia di Stato di usare il potere politico per costruire le basi della propria accumulazione, favorendo forme di corruzione.
Nel concentrarsi sul carattere neopatrimoniale dei regimi democratici, molti analisti hanno considerato che i processi multipartitici non fossero in grado di trasformare il ruolo dei cosiddetti big men8 al potere, poiché questo sistema è ciò che di fatto «funziona» in Africa9, sottovalutando, spesso, come vedremo, le specificità storiche e il ruolo della crisi socio-economica, accentuando, invece, degli ideal-tipi di sistemi politici.
Il neopatrimonialismo in Africa
In molti casi, i leader in carica hanno potuto monopolizzare e manipolare le transizioni alla democrazia. La necessità di adottare riforme economiche è stata, paradossalmente, un importante meccanismo per garantirsi potere e prestigio internazionali. Lo Stato monopolistico è stato sì abbandonato, ma per essere sostituito da strutture che, all’interno della liberalizzazione economica, hanno permesso alle élite di continuare a gestire il potere attraverso nuove forme di controllo delle risorse. Al tempo stesso, tali processi hanno ampliato i livelli di tensione e di divaricazione fra i diversi settori della società.
La democrazia non può, quindi, essere isolata dall’ambiente politico, economico e sociale più vasto. I processi di democratizzazione politica nel continente si sono svolti (e ancora si stanno svolgendo) in un difficile contesto, caratterizzato da una serie di importanti costrizioni: elevati livelli di povertà e di disuguaglianza, egemonia delle élite, deboli istituzioni di governance, istituzioni distorte e marginali a livello locale, forti pressioni esterne che producono eccessive condizionalità.
Nel giro di pochi anni, dopo le indipendenze, la formazione di sistemi presidenziali a partito unico, insieme alla gestione personale del potere da parte dei «padri della patria» e dei loro successori, è apparsa evidente una crisi di legittimità dei governi. Crisi causata da problemi economici e sociali e da un uso delle risorse volto a creare controllo politico, ossia dai modelli neo-patrimoniali intesi come sistemi associati a un ampio spettro di pratiche politiche, economiche e sociali considerate perlopiù indesiderabili10.
Stato e politica in Africa sono, spesso, descritti come neopatrimoniali considerando – seguendo il pensiero di Max Weber – che il governo è centrato sulla persona. Il neopatrimonialismo – un termine sviluppato, fra gli altri, da studiosi quali Jean François Médard11 e Christopher Clapham12 – si baserebbe, secondo questa linea, su istituzioni apparentemente moderne e razionali, anche se l’autorità resterebbe personalizzata, esercitando potere sulla cosa pubblica con metodi privatistici e attuando pratiche di lealtà e reciprocità radicati nella tradizione e negli usi locali13. Clapham definisce il neopatrimonialismo come «una forma di organizzazione in cui le relazioni di tipo sostanzialmente patrimoniale pervadono un sistema politico e amministrativo che è formalmente costruito su linee razionali-legali. I funzionari ricoprono posizioni in organizzazioni burocratiche con poteri formalmente definiti, ma esercitano tali poteri, per quanto è loro possibile, non come forma di servizio pubblico ma di proprietà privata»14. Tuttavia, Weber non ha utilizzato il patrimonialismo come puro termine negativo. Le relazioni patron-client non sono governate da semplici calcoli economici e leggi codificate. Piuttosto, i governanti distribuiscono riconoscimenti simbolici e materiali per soddisfare gli obblighi reciproci in una cultura condivisa. Le relazioni sono dirette e personali e non sono presenti significativi meccanismi formali di responsabilità o trasparenza15. Il neopatrimonialismo, in sostanza, rappresenta un tipo ibrido di dominio nel quale scompare la distinzione fra pubblico e privato, mentre istituzioni deboli possono facilmente diventare ostaggio di patronage e clientelismo, fino ad arrivare a una vera e propria forma di predazione16. Si tratterebbe di «una mescolanza creativa di due tipi di dominio weberiano: un sottotipo tradizionale, il dominio patrimoniale, e uno razionale-legale, il dominio burocratico»17. Il sistema è tenuto insieme dalla distribuzione personale delle «rendite»: in sostanza «sistemi basati su strutture di autorità personalizzate in cui i rapporti patron-client operano dietro la facciata di una burocrazia statale apparentemente razionale»18.
In sostanza, la combinazione di lealtà familiari e sociali, unite a una debolezza dello Stato nella distribuzione di ricchezza (incluso il welfare) e nel controllo politico tende a favorire clientelismo e patronage: il ruolo del big man è centrale per garantire questo specifico network socio-politico19.
Stato, democrazia, sviluppo
Lo Stato post-coloniale ha perpetuato molti meccanismi di controllo e di coercizione ereditati dallo Stato coloniale ma, dovendo costruire, almeno nella fase iniziale, un nuovo consenso, ha favorito la combinazione fra autoritarismo e pratiche paternalistiche centrate sullo sviluppo. Lo Stato sviluppista potè riprodurre il suo potere usando la crescita incentrata sul partito unico, delegittimando non tanto la politica quanto le pratiche democratiche. Al tempo stesso però lo Stato riuscì a offrire la speranza di poter garantire migliori condizioni di vita ai suoi cittadini, realizzando progetti per estendere infrastrutture e assicurare servizi sociali (sanità e istruzione).
La crisi, che iniziò ad apparire chiara negli anni Settanta, fu politica ed economica. Dal punto di vista politico, negli anni Ottanta, la crisi di legittimità dello Stato fu aggravata dai Programmi di Aggiustamento Strutturale e dalla liberalizzazione. Negli anni Novanta, la pressione dei donatori si allargò alle condizionalità politiche e alla democratizzazione, senza peraltro riuscire a considerare adeguatamente le richieste di democrazia provenienti dal basso. Björn Beckman afferma che «i neo-liberisti hanno cercato di delegittimare lo Stato, il luogo fondante delle aspirazioni nazionaliste e di resistenza al progetto neo-liberista»20.
Le istituzioni finanziarie internazionali spinsero per l’applicazione di riforme economiche basate sul mercato: lo Stato era visto più come un problema che come attore in grado di favorire lo sviluppo, nella convinzione che la concorrenza avrebbe favorito controlli migliori e che la riforma delle istituzioni statali e l’introduzione di meccanismi di mercato, oltre a creare sviluppo, avrebbero dovuto mettere in crisi le strutture generatrici di modelli di patrimonialismo21.
Tuttavia, nel corso degli anni Ottanta, era convinzione diffusa che governi autoritari potessero meglio realizzare le riforme economiche. I costi della liberalizzazione e della stabilizzazione erano alti e il controllo sociale permetteva la loro realizzazione in modo più soddisfacente. Gli avvenimenti hanno in parte contraddetto tale idea, in quanto le proteste contro i regimi autoritari e le politiche di austerità sono aumentate. I PAS sono stati da molti criticati per aver impoverito la popolazione, mentre le riforme economiche avevano bisogno di stabilità politica. Questa necessità ha portato al potere élite vecchie e nuove, preoccupate della loro potenza e della loro presentabilità.
Alla fine degli anni Ottanta fu chiaro che il miracolo dello sviluppo basato sul mercato e la liberalizzazione non si era materializzato. La Banca Mondiale indirizzò la sua attenzione alla questione della governance. Dagli anni Novanta la discussione sul neopatrimonialismo venne sempre più associata all’agenda della good governance22 e crebbe l’attenzione per i progetti di democratizzazione: la democrazia liberale e lo sviluppo politico di tipo occidentale erano visti come ideali da sostenere nella transizione dalla tradizione alla modernità. Nel 1989 la Banca Mondiale affermava che consenso, legittimità politica e uno Stato di diritto responsabile verso i cittadini costituivano le precondizioni dello sviluppo; questa posizione ha cercato di ottenere due risultati: il primo, svincola i proponenti della good governance dai fallimenti del passato; il secondo non solo afferma che il modello di Stato weberiano non funziona perché estraneo all’Africa, ma delegittima il modello di sviluppo basato sull’intervento statale.
È quindi indubbio che il dibattito sulla democratizzazione in Africa si leghi a molti elementi che includono anche gli obiettivi politici dei donatori. In un certo senso, la democratizzazione è diventata uno strumento politico nelle mani dei donatori, i quali perlopiù esprimono una nuova versione neo-liberista che insiste sugli strumenti regolatori del mercato all’interno del quale opera la democrazia liberale. Un tema, quello del legame fra globalizzazione, libero mercato e democratizzazione, discusso da molti autori che insistono sulla marginalizzazione dell’Africa23.
In maniera critica Thandika Mkandawire identifica, invece, le contraddizioni esistenti fra imposizione e scelta. Dal suo punto di vista, in Africa si sono sviluppati sistemi di «democrazia senza scelta»24 come parte di una strategia generale mirante all’imposizione di trasformazioni neoliberiste mediante i PAS. In tali affermazioni sono implicite le considerazioni sull’incoraggiamento di forme di governance «autoritaria» basate su strutture burocratiche in grado di realizzare le politiche economiche richieste, e quindi di non essere l’elemento regolatore del patrimonialismo. Infatti, come abbiamo visto, l’idea che la liberalizzazione economica possa di per sé ridurre poteri discrezionali non tiene in debito conto le complesse reti sociali e politiche e la capacità di molte élite di riconfigurarsi nel quadro della democratizzazione. In sostanza «non si può rispondere sul fatto che gli Stati africani ostacolano o meno l’emergere del capitalismo sostenendo semplicemente la logica del neopatrimonialismo»25. Si tratta di una questione assai complessa, le cui evidenze empiriche appaiano assai diversificate.
Una democrazia neopatrimoniale?
Anche se, come rilevato, le istituzioni democratiche hanno evidenziato molte difficoltà e, sebbene le forme di dominio neopatrimoniale possano essersi mantenute nonostante i cambiamenti di regime, l’ambiente in cui i Paesi africani hanno sperimentato le istituzioni democratiche è stato molto più favorevole di quello degli anni Settanta e Ottanta. Più specificamente questo ragionamento viene ripreso ed elaborato da alcune analisi26, secondo le quali il patrimonialismo costituirebbe non solo un meccanismo di predazione, ma anche una forza potenziale di regolamentazione di procedure politiche e di gestione di una governance sostenibile volta allo sviluppo. Basti pensare al caso del Botswana, uno dei Paesi considerati di successo, ma che al tempo stesso ha forti connotati neopatrimoniali. Infatti, «in Botswana, reciprocità complesse collegano il governo e i suoi cittadini, la legittimità viene creata e rafforzata sia dallo Stato di diritto, sia da legami personali, mentre è presente una relazione mutualmente costitutiva tra il personale e il pubblico»27.
Tuttavia, in molte analisi si riscontra un senso di negatività nei confronti dei sistemi politici africani. Si ritiene che, in contesti neopatrimoniali, l’autorità personalistica sia, per sua natura, in antitesi con il funzionamento delle istituzioni democratiche formali. Monopolizzando l’accesso alle risorse, i leader in carica sono stati spesso in grado di piegare il gioco politico a proprio vantaggio, cooptando (quando non costringendo) l’opposizione ad accettare le linee politiche dei gruppi dominanti. La misura in cui questi processi avvengono amplia indubbiamente i livelli di crisi fino al punto, in alcuni casi, di vedere un ritorno o la persistenza di regimi elettorali autoritari28.
Dobbiamo comunque prendere in considerazione il fatto che l’analisi dello Stato in Africa si sia sviluppata secondo i parametri della costruzione statuale occidentale, eludendo alcune importanti questioni: cosa siano e come si debbano effettivamente concretizzare la legittimità e il consenso interni. Il mito liberale (occidentale) dello Stato ha prodotto una serie di approssimazioni riguardanti la formazione dello Stato in Africa. A questo proposito, «è presente un costante riferimento alla forma ideale di divisione fra il pubblico e il privato dello Stato liberale europeo, senza preoccuparsi mai che esso stesso sia una costruzione immaginata»29. In molta letteratura30, quest’analisi problematica rafforza un’opposizione binaria tra ciò che è costruito come normale (occidentale) e ciò che non lo è (non occidentale, africano), visto come inadeguato. Questa devianza è spiegata in termini negativi e, seguendo le idee di Valentin-Yves Mudim be31, si è di fatto inventata l’Africa come semplice paradigma di differenza e alterità. A titolo di esempio, Michael Bratton e Nicholas van de Walle sostengono che «il marchio distintivo dei regimi dell’Africa post-coloniale è il neopatrimonialismo»32, mentre Jean-François Bayart et al. scrivono: «il “capitale sociale” dell’Africa sembra mostrare una spiccata affinità con lo spirito della criminalità»33. È questo spirito che consente o aiuta l’emergere di una politica clientelare dei big men che rende la corruzione un valore sociale e le reti informali la norma piuttosto che l’eccezione del comportamento dello Stato.
Tuttavia, l’analisi patrimonialista non consente di discutere adeguata mente della complessità della costruzione dello Stato-Nazione, dello sviluppo economico e soprattutto delle politiche redistributive. In generale, se osserviamo le trasformazioni degli anni Novanta nell’Africa sub-sahariana, non possiamo non riconoscere che, in molti casi, l’agenda della good governance sostenuta dai donatori ha offerto opportunità economiche e meccanismi di legittimazione alle élite al potere, mentre la presenza di sistemi politici complessi ha reso agevole rappresentare lo Stato africano come patrimoniale in quanto deviazione dal modello weberiano34.
L’approccio internazionale alla good governance, secondo cui la democratizzazione avrebbe consentito la formazione di Stati efficienti e responsabili verso i propri cittadini, sottovalutava, da un lato, il fatto che le procedure politiche sostenute dall’Occidente avessero in mente un ideal-tipo di Stato liberale che è, come sopra ricordato, una costruzione immaginata e, dall’altro, la storia complessa dello Stato post-coloniale in Africa, dove il patronage era servito a unire Stati multietnici e plurali basati su società prevalentemente rurali. Criticamente Mahomood Mamdami argomenta che la letteratura del dopo indipendenza fa un uso inappropriato della «storia per analogia»35. Pal Ahluwalia si spinge oltre, affermando che molte ana lisi sono «inficiate dall’eurocentrismo»36. A questo si riferisce Kamil Shah quando suggerisce che il primato conferito allo Stato di ispirazione weberiana rende complesse e invisibili le relazioni politiche e sociali e le lotte che esse racchiudono. Tali approcci sono basati su reificazione e naturalizzazione astoriche dello Stato liberale occidentale37.
Alcune analisi segnalano che i regimi africani variano sia quantitativa mente sia qualitativamente nella loro dimensione neopatrimoniale e non ci sono prove chiare che indichino che il neopatrimonialismo sia necessariamente in antitesi con la democrazia. Sebbene il concetto di neopatrimonialismo sia largamente usato negli studi sulla politica e lo sviluppo dell’Africa (e altrove), non sono mancate le riflessioni critiche intorno a questo concetto.
Come molti analisti hanno argomentato, il concetto è spiegato in modo così ampio che tende a offuscare la grande variabilità dei risultati economici e politici nel continente. Come già menzionato, contrariamente alle prospettive dominanti, questi lavori mostrano come il neopatrimonialismo possa anche diventare un’opportunità per la democrazia, la coesione sociale, la redistribuzione e lo sviluppo38. Ad esempio, una crescente attenzione a forme di «sviluppo patrimonialista», in casi come il Rwanda39, sta aiutando a sfidare le concezioni più convenzionalmente negative del concetto.
In definitiva cosa rende complessa e a volte difficile l’analisi del neopatrimonialimo in Africa40? Alcuni ritengono che le tensioni e le sfide presenti nel continente siano particolarmente complesse: il neopatrimonialismo fornirebbe una base culturale e morale che in qualche modo rende la corruzione comprensibile e le sue «vittime» partecipi. Un secondo elemento da considerare è la deferenza verso l’autorità. Tale comportamento risulta non solo nella sindrome del big man, ma anche in un popolo inestricabilmente legato e disponibile a relazioni clientelistiche. Quest’analisi tende, tuttavia, a minimizzare il dissenso presente nella politica africana e a ridurre il ruolo importante della resistenza. La terza caratteristica è la natura del big man stesso, il cui intento predatorio e clientelare renderebbe il sistema politico, in qualche modo, per sua stessa natura neopatrimoniale.
Conclusioni
Se, da un lato, i Programmi di Aggiustamento Strutturale avrebbero dovuto favorire un’alleanza tra forze internazionali e locali per generare sviluppo economico, dall’altro, la democratizzazione avrebbe dovuto eliminare il neopatrimonialismo. Spesso però lo Stato ha usato il nuovo contesto di libero mercato per privatizzare a vantaggio proprio e dei propri sostenitori. Ciò ha creato forti squilibri sociali che, in alcuni casi, hanno dato il via a fratture poi sfociate in conflitti violenti.
La «politica per lo sviluppo» ha messo in evidenza, fin dagli anni Cinquanta, la preoccupazione per l’ordine sociale e politico – piuttosto che per la democrazia –, modello che ha mostrato una continuità nello Stato post coloniale. Paul Cammack41 ricorda che il sistema politico doveva assorbire le tensioni che si generavano con la modernizzazione tanto dall’interno quanto dall’esterno, avendo a mente le spinte sociali di tipo pre-moderno ancora esistenti nelle società africane.
Oggi la sfida non è solo capire il ruolo del neopatrimonialismo e se la «democrazia neopatrimoniale» possa rappresentare una forma di democrazia di second’ordine e più vulnerabile, ma indagare su come le configurazioni delle istituzioni democratiche formali interagiscano con le autorità patrimoniali. È probabile che il neopatrimonialismo abbia ancora un futuro: alcuni si domandano quanto siano realistiche molte riforme basate sulla good governance e se siano effettivamente in grado di promuovere lo sviluppo e la democrazia42.
Parrebbe necessario sviluppare strutture e processi di riforma e di accountability che possano rafforzare democrazia e trasparenza. Tali iniziative includono: dare voce ai poveri e ai gruppi marginali; sostenere le organizzazioni della società civile; promuovere la responsabilità dei governi, non da ultimo aumentando la trasparenza e il volume di informazioni finanziarie; ridurre la corruzione; incoraggiare media liberi e indipendenti. Gli esperti e i riformatori della politica pubblica dovrebbero promuovere cambiamenti sociali positivi e affrontare le debolezze istituzionali, partendo dalla razionalità politica prevalente, dal contesto nazionale e individuando metodi per promuovere la partecipazione locale alla progettazione e all’attuazione di sistemi responsabili adattati alle esigenze locali43.
Ciò consentirà a élite, società civile e media di discutere i problemi e le ripercussioni del neopatrimonialismo e aumentare la consapevolezza africana su come sviluppare un idoneo sistema di governance.
Fonte/Testo originale: Mario Zamponi ‘Neopatrimonialismo e oltre. La statualità africana’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, dicembre 2018, Il Mulino.
Note
- S.P. Huntington, The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century, Norman, University of Oklahoma Press, 1991.
- Per una ricostruzione storica dello Stato in Africa sub sahariana si veda: A.M. Gentili, Lo Stato in Africa Sub-sahariana: da sudditi a cittadini?, in «Scienza & Politica», vol. 34, 2006, pp. 51-73.
- R. Joseph, The Reconfiguration of Power in Late Twentieth-Century Africa, in R. Joseph (a cura di), State, Conflict and Democracy in Africa, Boulder, Lynne Rienner, 1999.
- M. Doornbos, «Good Governance»: The Rise and Decline of a Policy Metaphor?, in «Journal of Development Studies», vol. 37, n. 6, 2001, pp. 93-108.
- M. Bratton e N. van de Walle, Democratic Experiments in Africa. Regime Transitions in Comparative Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 1997.
- J.F. Bayart, The State in Africa: Politics of the Belly, London, Longman, 1993.
- R.H. Jackson e C.G. Rosberg, Personal Rule in Black Africa: Prince, Autocrat, Prophet, Tyrant, Berkeley, University of California Press, 1982.
- Il governo del big man può essere definito come una forma autocratica di governo, estremamente personalizzata, che è sottoposta a limitati controlli da parte delle istituzioni moderne. Si veda: A.I. Teja, The «Big Men» of Africa: Origins, Tactics, and Implications of Rule by Mugabe and Museveni, in «Liberated Arts: A Journal for Undergraduate Research», vol. 4, n. 1, 2018 (disponibile online all’indirizzo https://ir.lib.uwo.ca/lajur/vol4/iss1/7).
- P. Chabal e J.P. Daloz, Africa Works: Disorder as Political Instrument, Bloomington, Indiana University Press, 1999.
- N. Van de Walle, African Economies and the Politics of Permanent Crisis, 1979-99, Cambridge, Cambridge University Press, 2001.
- J.F. Médard, The Underdeveloped State in Africa: Political Clientelism or Neo-patrimonialism?, in C. Clapham (a cura di), Private Patronage and Public Power: Political Clientelism and the Modern State, London, Frances Pinter, 1982, pp. 162-189
- C. Clapham, Third World Politics: An Introduction, Madison, University of Wisconsin Press, 1985.
- R. Sigman e S.I. Lindberg, Neopatrimonialism and Democracy: An Empirical Investigation of Africa’s Political Regimes, working paper n. 56, V-Dem Institute, University of Gothenburg, November 2017.
- C. Clapham,Third World Politic:…, cit., p. 48.
- A. Pitcher, M.H. Moran e M. Johnston, Rethinking Patrimonialism and Neopatrimonialism in Africa, in «African Studies Review», vol. 52, n. 1, 2009, pp. 125-156.
- T. Hopper, Neopatrimonialism, Good Governance, Corruption and Accounting in Africa: Idealism vs Pragmatism, in «Journal of Accounting in Emerging Economies», vol. 7, n. 2, 2017, pp. 225-248.
- G. Erdmann e U. Engel, Neopatrimonialism Reconsidered: Critical Review and Elaboration of an Elusive Concept, in «Commonwealth & Comparative Politics», vol. 45, n. 1, 2007, p. 104.
- I. Taylor e P. Williams, Political Culture, State Elites and Regional Security in West Africa, in «Journal of Contemporary African Studies», vol. 26, n. 2, 2008, p. 137.
- Per dettagli e approfondimenti si veda: J.-F. Médard, L’État néo-patrimonial en Afrique noire, in J.-F. Médard (a cura di), États d’Afrique Noire. Formations, Mécanismes et Crise, Paris, Karthala, 1991, pp. 323-353.
- B. Beckman, The Liberation of Civil Society: Neo-Liberal Ideology and Political Theory, in «Review of African Political Economy», vol. 58, 1993, p. 29.
- T. Hopper, Neopatrimonialism, Good Governance, Corruption…, cit.
- T. Mkandawire, Neopatrimonialism and the Political Economy of Economic Performance in Africa. Critical Reflections, in «World Politics», vol. 67, n. 3, 2015, pp. 563-612.
- N. van de Walle, Globalisation and African Democracy, in R. Joseph (a cura di), State, Conflict and Democracy in Africa, cit.
- T. Mkandawire, Crisis Management and the Making of «Choiceless Democracies», in R. Joseph (a cura di), State, Conflict and Democracy in Africa, cit.
- Ibid., p. 578.
- Si veda fra gli altri: T. Kelsall, Business, Politics, and the State in Africa: Challenging the Orthodoxies on Growth and Transformation, London, Zed Books, 2013; D. Booth e F. Golooba-Mutebi, Developmental Patrimonialism? The Case of Rwanda, in «African Affairs», vol. 111, n. 444, 2012, pp. 379-403; A. Pitcher, M.H. Moran e M. Johnston, Rethinking Patrimonialism…, cit.
- A. Pitcher, M.H. Moran e M. Johnston, Rethinking Patrimonialism…, cit., p. 150.
- Si veda su questa ampia discussione: R. Sigman e S.I. Lindberg, Neopatrimonialism and Democracy, cit.
- S. Bracking, Regulating Capital in Accumulation: Negotiating the Imperial «Frontier», in «Review of African Political Economy», vol. 30, n. 95, 2003, p. 14.
- Si veda su questo dibattito: Z. Wai, Neo-patrimonialism and the Discourse of State Failure in Africa, in «Review of African Political Economy», vol. 39, n. 131, 2012, pp. 27-43.
- V.Y. Mudimbe, The Idea of Africa, Bloomington, Indiana University Press, 1994.
- M. Bratton e N. van de Walle, Democratic Experiments in Africa, cit., p. 61.
- J.-F. Bayart, S. Ellis e B. Hibou, The Criminalisation of the State in Africa, Oxford, James Currey, 1999, p. 34.
- S. Bracking, Neoclassical and Structural Analysis of Poverty: Winning the Economic Kingdom for the Poor, in «Third World Quarterly», vol. 25, n. 5, 2004, pp. 887-901.
- M. Mamdani, Citizen and Subject: Contemporary Africa and the Legacy of Late Colonialism, Princeton, Princeton University Press, 1996.
- P. Ahluwalia, Politics and Post-colonial Theory: African Inflections, London, Routledge, 2001, p. 64.
- Si veda: K. Shah, The Failure of State Building and the Promise of State Failure: Reinterpreting the Security-Development Nexus in Haiti, in «Third World Quarterly», vol. 30, n. 1, 2009, pp. 17-34.
- Si rimanda per approfondimenti su quest’interessante dibattito a: R. Sigman e S. Lindberg, Neopatrimonialism and Democracy, cit.
- D. Booth e F. Golooba-Mutebi, Developmental Patrimonialism…, cit.
- T. Mkandawire, Neopatrimonialism and the Political…, cit.
- P. Cammack, Political Development Theory and the Dissemination of Democracy, in «Democratization», vol. 1, n. 3, 1994, pp. 353-374.
- H.-J. Chang, Is Industrial Policy Necessary and Feasable in Africa? Theoretical Considerations and Historical Lessons, working paper scritto per JICA/IPD Africa Task Force Meeting Yokohama, in Giappone il 2-3 giugno 2013. L’autore al riguardo sottolinea che «qualunque cosa si pensi dei problemi di economia politica dei Paesi africani, non si dovrebbe consentire che l’ottimo sia il nemico del buono» (p. 11).
- V. T. Hopper, Neopatrimonialism, Good Governance, Corruption…, cit.