Invertire la rotta del declino italiano

Tra la ‘classe creativa’ e la ‘neoplebe’, l’iniziativa è tutta dalla parte della prima. Per un’inedita e necessaria alleanza.

Autore

Fausto Raciti

Data

6 Marzo 2023

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6' di lettura

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6 Marzo 2023

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ll libro di Paolo Perulli e Luciano Vettoretto, Neoplebe, classe creativa, élite, oltre a offrire una chiave interpretativa originale delle trasformazioni della società italiana, si può leggere come un racconto fedele del declino del Paese. È difficile infatti, nel raffronto con la composizione sociale degli altri Paesi, sfuggire all’evidenza che le peculiarità italiane di una élite molto piccola, chiusa, maschile e per metà non laureata e una neoplebe così vasta sono il riflesso della collocazione dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro e di una crisi del sistema politico-istituzionale che si avvita dall’inizio degli anni Novanta.

Siamo dunque in presenza di un problema di carattere generale e non solo di giustizia distributiva, in cui alcuni tratti storicamente presenti nella società italiana (la tendenza delle élite nazionali al comando senza egemonia e il plebeismo meridionale insieme reazionario e anarcoide sono presenti dall’unità d’Italia come elementi caratterizzanti della storia nazionale) che vengono enfatizzati e largamente rimodellati dell’incapacità del Paese di affrontare le principali sfide post-89: apertura dei mercati e finanziarizzazione dell’economia, ridimensionamento della spesa pubblica, fine della svalutazione competitiva della moneta e transizione digitale.

I cicli elettorali dal 2013 al 2022 hanno registrato, sia dal punto di vista sociale che territoriale una fotografia di questa Italia in cui la neoplebe, esclusa dal sistema di garanzie della spesa pubblica e priva di prospettive di miglioramento della propria posizione ha premiato chi si è dimostrato disponibile a rappresentarne il rancore: i populisti e la destra sovranista-tradizionalista. 

È importante rilevare un dato di partenza, che può avere influito nello spingere gli autori a escludere il ceto politico dall’élite del Paese: negli anni dell’emersione del fenomeno populista e del bipolarismo prima i partiti politici hanno preferito offrire una rappresentazione della porzione di società i cui interessi sentono di difendere piuttosto che costruire una rappresentanza.

I gruppi parlamentari dei singoli partiti si sono configurati come campione simbolicamente rappresentativo della parte di Italia che ciascun soggetto politico ambisce a guidare che come prodotto di un progetto politico di trasformazione. Per invertire la rotta del declino italiano occorrerebbe la condivisione tra schieramenti diversi di alcune priorità e responsabilità, la cui assunzione implica la rinuncia ad alcune bandiere del proprio gruppo sociale di riferimento.

Usando termini della scienza economica, il costo-opportunità di una scelta di questo genere non è stato mai ritenuto conveniente, scaricando di volta in volta sui tecnici chiamati a guidare il governo la responsabilità delle decisioni in emergenza per poi riprendere il confronto bipolare (o tripolare) teso a negare le ragioni dell’altro, senza cioè affrontare i problemi di carattere politico istituzionale che determinano nei partiti il rifiuto della mediazione parlamentare come modo di funzionamento normale di una democrazia pluralista.

È in questo pendolo tra populismo e tecnocrazia che si sono consumati la marginalizzazione della politica, il rafforzamento della burocrazia statale e dei poteri autonomi dal Parlamento – compreso il banco-centrismo caratteristico del nostro Paese -, e il matrimonio tra neoplebe che delegittima la politica ed élite che la sostituisce.

Per spezzare questa tenaglia del declino, l’unica realistica possibilità risiede nella costruzione di un’alleanza sociale e politica tra classe creativa e neoplebe, di cui vorrei evidenziare brevemente alcune condizioni essenziali.

Intanto, come già evidenziato dagli autori, serve che la classe creativa, proprio per la sua variegata composizione, assuma coscienza del legame tra la propria funzione e l’interesse generale del Paese. Vettore di modernizzazione, cerniera con le grandi trasformazioni dell’economia globale, dotata degli strumenti e della consistenza per ambire al ruolo di classe dirigente eppure imprigionata tra il non più delle certezze del vecchio ceto medio e il non ancora di una funzione sociale che si intravede ma non si esplica. Se la causa di questa condizione è la scissione tra sapere e potere allora è con una alleanza prima sociale che politica che il sapere deve prendere il potere e sostituire l’élite. Perché solo la trasformazione del nostro sistemo produttivo può aprire una possibilità di emancipazione –  e non solo di assistenza – a una parte della neoplebe e cercare di trasformare quello che Vettoretto chiama ‘lo spazio della dipendenza’.

In secondo luogo occorre un soggetto politico di ispirazione riformista capace di muoversi fuori dalla contrapposizione semplificata lavoro dipendente-lavoro autonomo come condizione indicativa della posizione sociale proprio per offrire rappresentanza agli interessi e ai valori civici espressi dalla classe creativa. Superare questa dicotomia è condizione indispensabile anche per offrire un riferimento politico alla neoplebe, mettere al centro della contrattazione collettiva sul lavoro il suo contenuto di sapere, l’accrescimento delle competenze del lavoratore lungo tutto l’arco della vita e la loro certificazione oltre che la salvaguardia dei livelli di reddito, in un Paese in cui pure, il livello medio delle retribuzioni, è fermi agli anni Novanta.

Serve, infine, prendere atto di un elemento di complessità che richiede una risposta: la modernizzazione del nostro sistema di imprese è la modernizzazione delle piccole e medie imprese. Questo può essere un veicolo importante per l’affermazione della classe creativa, un contributo vero che può dare alla crescita del Paese, alla trasformazione della sua cultura manageriale, all’aprirsi di una prospettiva migliore per la neoplebe. Ciò avrebbe grande valore soprattutto nello spazio della dipendenza, in considerazione del conclamato fallimento dei tentativi di industrializzazione pesante, soprattutto se prendesse forma un’alleanza tra nuove aziende, università e quel che resta delle vecchie grandi aziende a partecipazione statale o multinazionali tecnologiche che in qualche caso operano ancora nel mezzogiorno.

Insomma, un soggetto politico che si ponesse l’obiettivo cambiare la stratificazione sociale del Paese, la sua economia e le sue élite difficilmente potrebbe partire in questo tentativo dalla neoplebe, sia per l’insieme di valori che essa esprime, sia perché priva -da sola- degli strumenti e della forza di innescare una transizione. Ma partendo dalla classe creativa potrebbe, forse sarebbe obbligato, ad agganciarla dentro una cornice di emancipazione da una condizione sociale e territoriale frequentemente marginale. 
Nel dibattito pubblico di questi ultimi anni si è spesso parlato di popolo come di un elemento dato da conquistare o riconquistare sul piano elettorale. Uno slogan dei movimenti di contestazione del capitalismo finanziario degli anni post-2008 giocava con questa idea: «Voi siete l’1% e noi il 99%». Era un’idea tanto efficace quanto semplificata e populista: dentro quel 99% c’è la società con le sue contraddizioni e senza affrontarle.  Un popolo è sempre una costruzione sociale e l’alleanza tra classe creativa ed élite può essere il popolo di un moderno partito a vocazione maggioritaria.


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