Quando fu inaugurato il ‘Summit della Terra’ nel giugno del 1992, 30 anni or sono, la CO2 nell’atmosfera era inferiore a 360 ppm (parti per milione). Gli allarmi dettati dalla crisi climatica erano ancora relegati principalmente agli ‘addetti ai lavori’, mentre il mondo occidentale stava entrando con fiducia e ottimismo nella globalizzazione post-Guerra Fredda.
L’incontro internazionale era il frutto di una serie di iniziative volte a fermare il cambiamento climatico, ma anche l’inquinamento e altre pratiche distruttive nei confronti dell’ecosistema. Con oltre 170 governi presenti e circa 20.000 partecipanti, nel famoso Summit vennero poste le basi per le successive COP (Conferenze delle Parti dell’UNFCCC), che hanno tutt’ora come scopo principale quello di gestire la crisi ambientale e portare il mondo verso un futuro ‘sostenibile’. Passate tre decadi e ben 26 conferenze, la CO2 ha raggiunto 420 ppm e la crisi è in netto peggioramento.
Ragionevolmente le COP dovrebbero essere etichettate come un colossale fallimento, ma in un modello di sviluppo dominato dall’ideale produttivista si è instaurata invece una curiosa negazione della realtà: i molteplici fallimenti vengono giustificati di volta in volta dando la colpa a tale o talaltra nazione, tale o talaltra lobby, oppure col pretesto che fino a poco tempo fa non vi erano ‘dati certi’ o tecnologie adeguate. Tutto vero, tutto giusto, ma queste colpe e ritardi nascondono una scomoda verità: ovvero che il metodo ‘COP’, così come è concepito, non funziona e non può funzionare in un Sistema fondato su dinamiche di crescita esponenziale.
Più passa il tempo, più i dati scientifici diventano scomodi, inquietanti, apprensivi e drammatici, ma questo non sembra far vacillare il rituale istituzionale delle suddette conferenze. E quando certi dati minano le fondamenta delle presunte azioni ‘sostenibili’ dei vari governi, essi finiscono nel dimenticatoio come se fossero una impercettibile dissonanza.
Proprio durante la COP26 del 2021 un’inchiesta del Washington Post seminò pesantissimi dubbi sul reale livello delle emissioni globali – livello sulla base del quale vengono stipulati innumerevoli piani, progetti e accordi internazionali. I retroscena forniti dall’inchiesta erano talmente gravi che ci saremmo potuti aspettare uno scandalo planetario ma non ci furono reazioni. Persino il mondo ambientalista, nella maggior parte delle sue componenti, ignorò l’inchiesta.
Un destino ancora più infausto viene riservato alle ricerche che denunciano l’insostenibilità strutturale del programma economico della modernità. Oltre a quelle che mettono in serio dubbio il famoso e teorizzato (ma mai ottenuto) disaccoppiamento fra la crescita del PIl su scala globale e l’impatto nocivo sull’ambiente, vi è un recente studio che conferma, per l’ennesima volta, che lo sviluppo industrializzato comporta inevitabilmente il superamento dei vari limiti ambientali, non solo a livello di emissioni, ma anche in altri ambiti concernenti la biosfera. Nessuna nazione negli ultimi 30 anni è sfuggita a questa implacabile legge e all’orizzonte non sembra esserci alcun rimedio rapido ed efficace.
La pretesa di coniugare le esigenze di espansione infinita del modello industriale con la conservazione dell’ecosistema è diventato il nuovo mito a cui a aggrapparsi, a partire dai rituali di cooperazione chiamati COP. Ma il tempo passa, la dissonanza aumenta, l’illusione perde forza e la ‘sostenibilità felix’ inizia a sgretolarsi.
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