Tre buone pratiche, in presa diretta

Gli impatti del cambiamento climatico su alcuni settori economici, fondamentali per la nostra vita quotidiana, e le misure di adattamento messe in campo dagli stessi operatori, non sempre vengono messi in evidenza. Quali rischi corrono la nostra viticoltura, coltivazione del grano duro e pesca? Come una buona pratica può generarne un’altra?

Autore

Pasquale Alferj, Alessandra Favazzo

Data

23 Novembre 2023

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23 Novembre 2023

ARGOMENTO

PAROLE CHIAVE


Agricoltura

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Dicembre 2017 – C’è chi nel 2012 pensava che il cambiamento climatico fosse un’invenzione cinese, creata ad arte per rendere la produzione degli Stati Uniti non competitiva. Il guaio è che lo pensa ancora oggi colui che ricopre la carica di presidente di questo Paese e ha a disposizione un’enorme mole di dati scientifici che del cambiamento climatico confermano l’esistenza e la dimensione. Ha ricusato gli impegni previsti dall’Accordo di Parigi firmato da Barack Obama nel 2016, il più importante trattato degli ultimi anni per contrastarlo. Non contento di questo, ha nominato direttore dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente Scott Pruitt, che ha una carriera di oppositore a qualsiasi tentativo di lotta al cambiamento climatico1. Inoltre, un solerte direttore del Natural Resources Conservation Service del Ministero dell’Agricoltura ha emanato una direttiva in cui ha invitato i suoi dipendenti a non usare più espressioni quali «cambiamento climatico», «riduzione di gas serra», «strategie di adattamento al cambiamento climatico» e a sostituirle, nell’ordine, con «clima estremo», «accrescere la resistenza del suolo», «resilienza al clima estremo», come se i fatti potessero adattarsi al quadro linguistico imposto dall’attuale amministrazione. Questo accade in un Paese che vede, al contrario, il proprio esercito perseguire la transizione verso le energie sostenibili e, al pari di quello degli altri Stati, considerare il cambiamento climatico una componente essenziale della propria dottrina di difesa per i potenziali effetti destabilizzanti sulle sue capacità operative e, in generale, sulla sicurezza. Diversa la percezione, sia negli Stati Uniti sia in Italia, dei cittadini, che ne fanno esperienza quotidianamente – siccità frequenti e prolungate, l’anomalo andamento delle precipitazioni e delle stagioni, la neve meno abbondante, l’innalzamento delle temperature medie – e soffrono assieme alle colture e ai fiumi asciutti e ai boschi che bruciano. E lo sanno bene anche gli operatori di alcuni settori economici, che da tempo sono corsi ai ripari e non cessano di cercare e mettere in circolazione nuove pratiche di  adattamento. In questi casi a essere a rischio è la materia prima che garantisce loro il reddito necessario per vivere e settori economici che assicurano lavoro. Per saperne di più siamo andati a intervistare tre operatori di comparti molto sensibili agli effetti del cambiamento climatico ed essenziali per la sicurezza alimentare di noi cittadini. 

Vini e clima: una lunga storia

Alcuni anni fa, la rivista dell’Accademia americana delle scienze pubblicò un articolo di Lee Hannah, dell’Università della California, e di otto suoi colleghi che, incrociando due scenari climatici (il primo prevedeva un aumento del clima di circa 2oC tra il 1750 e la fine del secolo, il secondo ipotizzava un incremento intorno ai 4oC) con i fattori essenziali per lo sviluppo della vite e dell’uva (durata dell’esposizione al sole, andamento della temperatura invernale, pluviometria eccetera), stilava una mappa della viticoltura mondiale al 2050. Le conclusioni del saggio produssero una certa inquietudine nei viticoltori e provocarono grandi discussioni. Secondo gli autori, gran parte dei vigneti d’Australia, Africa del Sud e California era destinato a scomparire. L’Aquitania, la Valle del Rodano e la frangia mediterranea sarebbero state classificate come «proibite alla viticoltura». La Castiglia, l’Italia (con l’eccezione della Sicilia), la Grecia (ma non Creta), il Portogallo (ma non l’Algarve) avrebbero dovuto cambiare i vitigni o le pratiche di coltivazione.

Sempre secondo l’articolo, la vite, a fine secolo, si sarebbe coltivata solo nel  Nord e nell’Est Europa. Un quadro apocalittico, certo, ma il documento suonò come un campanello d’allarme, anche se non tutti si mostrarono d’accordo con le conclusioni di Hannah. Sulla stessa rivista un’équipe di ricercatori europei, capeggiata da Cornelis van Leeuwen, contestò infatti  le evidenze contenute nel saggio. Gli autori, comparando le temperature  medie di due periodi (1971-1999 e 2000-2012) in tre importanti regioni vinicole (Rheingau, Borgogna e Valle del Rodano), mostrarono che mal grado l’aumento delle temperature si poteva continuare a produrre grandi vini, come il riesling, il pinot nero e grigio e il sirah. Inoltre, contestavano  all’équipe americana di aver sottostimato le capacità di adattamento della  vite ai cambiamenti climatici in tutta la sua storia2. La viticoltura e l’enologia possiedono tutto un armamentario di pratiche più o meno complesse e costose di adattamento al cambiamento climatico, anche se la situazione odierna è senza precedenti e i prossimi trent’anni non promettono niente di buono riguardo all’incremento annuale della temperatura media e a un clima ormai fuori di sesto. Ed è di questo che parliamo con Diego Tomasi, direttore del CREA-Vit (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria) di Conegliano (Treviso), il più importante centro nazionale dedicato alla vite, il cui obiettivo principale è quello di rendere le aziende viticole economicamente sostenibili, adottando coltivazioni che possano aumentarne la reddittività. 

Gli ultimi vent’anni 

«Avere a che fare con la vite», ci dice Tomasi, «è come possedere un  termometro perché il germogliamento primaverile, la data di fioritura, la data d’invaiatura, cioè di maturazione, e la data di raccolta sono estremamente sensibili e guidati dalle temperature». Il centro di Conegliano, oltre a essere all’avanguardia nello studio del germoplasma (il corredo genetico  ereditario), possiede la più grossa raccolta nazionale delle varietà da vite ed è proprio quest’ultima che ha permesso di studiare la fisiologia della vite nell’interazione genotipo-ambiente in Italia negli ultimi vent’anni. «In Italia», prosegue Tomasi, «gli effetti del cambiamento climatico rimontano agli anni 1988-1991, evidenziati proprio dall’accorciamento di 15 giorni del ciclo vegeto-produttivo». Con quali conseguenze? «La prima è che la vendemmia viene anticipata di 15 giorni. E questo vale per tutte le varietà. La seconda è legata alle malattie. Se prima eravamo abituati a iniziare la difesa a metà maggio, ora dobbiamo cominciare a fine aprile. Il viticoltore si è adeguato a questo nuovo calendario». Il cambiamento climatico comporta soprattutto l’aumento delle temperature. Cosa significa per la vite? «Significa che la vite ha un’attività fotosintetica più elevata e produce delle uve più zuccherine e con meno acidità», risponde Tomasi. Il mercato non sembra gradire vini troppo alcolici. «Cosa fare se le uve sono troppo  zuccherine?», incalziamo noi. «Possiamo, per esempio, spostare i vitigni in altitudine, in ambienti più freschi», spiega Tomasi, «e avere uve qualitativamente ottime. Una cosa che vent’anni fa non era possibile ottenere perché non faceva così caldo. Ora, nella Valpolicella si fanno ottimi amaroni a 500-550 metri d’altitudine. E in Trentino i vigneti di chardonnay sono stati spostati a 600-650 metri per ottenere uve fresche, meno zuccherine e più acide». 

Spostarsi d’altezza, quando è possibile, ci pare di capire, è un modo di adattare i vitigni al cambiamento climatico. 

Adattarsi per non sparire 

L’aumento di temperatura è senz’altro l’aspetto più visibile degli effetti del cambiamento climatico, ma ci sono anche le piogge anomale e l’andamento delle stagioni, che ormai è andato perduto. «Le annate sono spaccate in due», precisa Tomasi, «primavere molto calde, seguite da periodi molto piovosi e più freschi, e viceversa. Quest’anno, per esempio, abbiamo avuto una primavera fredda, subito seguita da un’estate caldissima. Nei periodi siccitosi siamo obbligati a irrigare le colture. Per quanto riguarda il Veneto, il 70% dei nuovi vigneti ha l’impianto d’irrigazione. Ma, dato che l’acqua sta diventando un bene sempre più conteso e prezioso, è necessario costruire impianti più efficienti, irrigare sottoterra, a 30 centimetri, in modo da portare l’acqua esattamente dove sono le radici. In questo modo si risparmia il 40% di acqua. Anche questo è un modo di adattarsi al cambiamento climatico». 

Precipitazioni intense e quantitativamente importanti, con fenomeni di ruscellamento, causano processi di erosione del terreno e le sistemazioni collinari vanno riviste. «Si tende a non fare più i cosiddetti ‘ritocchini’  dall’alto verso il basso, ma delle banchine trasversali, in modo da fermare l’acqua, e altre sistemazioni idrauliche. Anche queste soluzioni sono un esempio di adattamento», conferma Tomasi. Ci sono delle problematiche nuove alle quali i nostri viticoltori dovranno presto trovare una soluzione?  «Le gelate. Prendiamo quella di quest’anno: l’abbiamo subita al 100%. Ci  siamo trovati completamente impreparati. Non siamo riusciti a reagire in nessun modo. I francesi, al contrario, sanno come affrontare questo fenomeno», racconta Tomasi. «Accendono stufette e fuochi. Da noi gelate così importanti si verificavano solo una volta ogni vent’anni. Oggi sono più frequenti, dovremmo seguire il loro esempio imparando qualche modalità d’intervento e adattamento, per esempio utilizzando l’impianto di irrigazione. E sfruttando la proprietà dell’acqua di emettere, passando dallo stato liquido a quello solido, una notevole quantità di calore, 80  cal/g, in grado di proteggere il germoglio». Difendere le viti dalle gelate,  d’accordo, ma devono essere salvaguardate anche dal troppo sole? «Con i picchi attuali, assistiamo alle scottature dei grappoli, soprattutto quelli esposti a Ovest, dove nel pomeriggio c’è più caldo», spiega Tomasi. «L’eccessiva temperatura scotta gli acini. Un acino di uva bianca, quando è colpito dal sole, può raggiungere anche una temperatura intorno ai 12-13  gradi superiori a quella esterna. Se poi si tratta di uva rossa, l’escursione  termica è ancora maggiore. Abbiamo imparato che bisogna evitare che  il grappolo sia esposto al sole, ma protetto dalle foglie. Per questo le cimature e le sfogliature, che fino a vent’anni fa si facevano in qualsiasi periodo dell’anno, oggi vanno fatte molto in anticipo, subito prima della fioritura. Così, piano piano, la pianta fa nuove foglie che coprono i grappoli. Oppure vanno fatte prima della vendemmia, quando le temperature non sono troppo elevate. O, ancora, alla mattina, solo nel lato esposto, quando il sole non scotta. Nel Sud, per adattarsi alle alte temperature, i viticoltori hanno riscoperto l’uso dei tendoni per proteggere i grappoli dal sole e nel veronese la pergola», ci spiega. Che effetto ha la scottatura degli acini sul vino? «La perdita in produzione può raggiungere anche il  15%. Ecco perché abbiamo imparato che la sfogliatura va fatta in un determinato modo. Con delle uve troppo zuccherine possiamo togliere, in  fase d’invaiatura, tutta la parte superiore delle foglie, quelle più giovani. Eliminando la massa fotosintetizzante ottengo meno zuccheri. Una strategia di adattamento anche questa». Cos’altro si può fare per ridurre i  tassi di fotosintesi? «Usare i cosiddetti ‘antitraspiranti’ da dare alle foglie prima e dopo l’invaiatura. In questo modo si riduce la traspirazione e di conseguenza la fotosintesi». 

Lavorare sui terroir 

L’Italia è il Paese al mondo con il maggior numero di vini DOC grazie alla sua ricca varietà di vitigni autoctoni. «Cinquecentodiciassette sono le varietà iscritte al catalogo nazionale», precisa Tomasi, che in quanto direttore del CREA-Vit di Conegliano gestisce il Registro della varietà delle viti e ha i dati sempre aggiornati. «L’80% è rappresentato da varietà autoctone, mentre il rimanente 20% da varietà internazionali. Per la sua posizione geografica e la sua storia geologica, l’Italia ha inoltre il 50% della varietà podologica al mondo e un assortimento incredibile di climi». Le varietà autoctone sono state selezionate nel tempo per adattarsi a precise condizioni climatiche e ambientali, in cui giocano un ruolo importante anche la composizione del terreno e gli elementi minerali presenti, la morfologia del  suolo, la microfauna attiva, senza dimenticare le pratiche specifiche per la produzione del vino. È il complesso di questi elementi (terroir) a fare l’unicità e la tipicità di un vino. 

La tecnologia in aiuto alla viticoltura 

Ma se il clima cambia, cosa succede? Il nostro grande patrimonio vinicolo è a rischio? «Non siamo preoccupati: finora siamo riusciti ad adattarci»,  rassicura Tomasi. «Il consumatore sa che un determinato vino ha un preciso  profumo e un particolare aroma. Se queste caratteristiche spariscono, perdiamo l’immagine del vino. L’Università di Milano, per far fronte alle problematiche dello stress idrico e della salinità, ha lavorato sui portainnesti. Ne ha messi a punto quattro che sono efficaci nell’assorbire acqua. Si stanno diffondendo e rappresentano un contrasto al cambiamento climatico. Sono utili quando c’è poca acqua o la falda s’abbassa, o, ancora, quando, come accade nel Meridione, l’acqua diventa più salina. Ma c’è ancora un grosso lavoro da fare per ottenerne altri e ampliare la gamma delle possibilità». Ma cosa succederebbe se la temperatura media annuale dovesse continuare ad  aumentare? «In questo caso la situazione sarà sempre più critica per i nostri terroir e quindi per le nostre varietà autoctone meno idonee all’adattamento  a causa della loro specificità ambientale». Che fare allora? «Ci rivolgeremo a nuove varietà perché l’Italia non può permettersi di perdere un settore economicamente così importante». L’Università di Udine, ci spiega Tomasi, ha messo a punto in questi anni, con metodi genetici tradizionali, una decina  di varietà resistenti. «Sono varietà che al 95% hanno le proprietà del merlot, chardonnay, cabernet, tocai, sauvignon, ma hanno un gusto diverso. La vera  rivoluzione, e soluzione, perché ci permette di conservare i terroir», ragiona  Tomasi, «è quella genetica. In questo modo, nel giro di dieci-quindici anni si potranno avere delle varietà resistenti alla temperatura, meno bisognose d’acqua e capaci di opporsi agli agenti patogeni per diminuire i trattamenti  necessari. Questo traguardo però è ancora lontano. Le tecniche di miglioramento genetico a cui dovremmo ricorrere non sono ancora permesse». Sta  parlando di tecniche assimilabili a quelle usate per produrre OGM? «Faccio riferimento alla cisgenesi e al genoma editing. La prima tecnica consente di  migliorare la varietà che ci interessa usando i geni di altre varietà, ma della  stessa specie o di specie interfertili. Grazie alla seconda, invece, è possibile modificare, eliminare o inserire, in maniera mirata, specifiche sequenze genomiche. Due tecniche per ottenere trasformazioni che avvengono spontaneamente in natura, ma accelerandone i tempi. Niente a che vedere con quelle usate per produrre gli OGM». 

Il Parlamento europeo non ha ancora deciso, contrariamente agli Stati Uniti e al parere favorevole dell’European Food Safety Authority (EFSA), di svincolare le due tecniche dai limiti imposti agli organismi transgenici. Il chiarimento dovrebbe avvenire entro la fine del 2017 e, se non ci saranno  sorprese, presto il CREA-Vit di Conegliano coordinerà il piano di ricerca straordinario sul miglioramento genetico attraverso biotecnologie sostenibili. Il Ministero dell’Agricoltura ha stanziato 21 milioni di euro. «Questo è il futuro dell’adattamento al cambiamento climatico». 

Grano duro ecosostenibile 

I fertilizzanti sono stati il motore della rivoluzione caratterizzata dallo sfruttamento intensivo di una risorsa non rinnovabile: il suolo. Barilla, il gigante italiano del settore alimentare, da anni scommette sulla conversione sostenibile dei suoi impianti e delle sue filiere, un modo per contrastare il  cambiamento climatico a cui i sistemi di produzione del cibo contribuiscono largamente. La sostenibilità è oggi l’elemento centrale della sua corporate  identity, tanto da investire tutta la supply chain e orientare il consumatore finale (promozione della dieta mediterranea e riduzione degli sprechi alimentari). La storia che stiamo per raccontarvi è un bell’esempio di contenimento dell’impatto ambientale e di serendipity realizzato coniugando innovazione e tradizione. 

Buone prassi agronomiche 

«Il Gruppo Barilla ha iniziato a rendere esplicito il suo percorso sostenibile nel 2008», ci dice Luigi Ruini, ingegnere elettronico di formazione e oggi  direttore del Group Supply Chain Salute, Sicurezza, Ambiente ed Energia; una lunga esperienza all’interno del gruppo, dove ha ricoperto diverse posizioni chiave così da acquisire una visione globale delle sue attività. Tutto è partito da una ricerca affidata alla Fondazione per la Cittadinanza Attiva (FONDACA) per conoscere il posizionamento del gruppo. Il risultato sorprendente della ricerca, per i committenti, è stato l’individuazione di diverse attività sostenibili svolte a livello della supply chain, poco integrate con la strategia aziendale. Così l’anno successivo, nel 2009, è nato l’embrione di quella che oggi è la Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition, la cui missione è, tra l’altro, di valutare, con un approccio multidisciplinare, l’impatto che l’intero ciclo produttivo ha sull’ambiente e quindi sulla salute e la nutrizione. 

«All’inizio del 2000, l’Unione Europea elabora il Life Cycle Thinking Approach, ovvero l’analisi del ciclo di vita del prodotto. Cerco di capire di cosa  si tratta e come applicarlo», spiega Ruini. «E così inizio un primo studio sugli  impatti ambientali della pasta lungo tutta la filiera, dalla fase di coltivazione a quella di cottura. Utilizzando la metodologia del Life Cycle Assessment  emerge che le fasi che presentano gli impatti maggiori in termini di inquinamento sono quella della cottura della pasta (40% del totale) e quella della coltivazione del grano (35% degli impatti complessivi). All’epoca eravamo tutti convinti che fossero la produzione, il trasporto e il packaging le fasi più rilevanti». Sulla fase di cottura l’azienda era fuori gioco, non poteva certo intervenire. Ma sulla coltivazione? «Dopo questo primo studio, ho pensato a  come utilizzare in modo più strutturato questi risultati e ho chiesto ai colleghi  del reparto Ricerca&Sviluppo, che si occupavano di migliorare la qualità del  grano, a chi potevo rivolgermi per capire come ottimizzare l’uso di fertilizzanti e, in generale, della chimica». I colleghi lo indirizzano alla Facoltà di Agraria dell’Università Cattolica di Piacenza e, più esattamente a Horta, uno spin off che all’epoca lavorava all’individuazione delle tecniche di coltivazione più efficienti e sostenibili per migliorare la qualità del grano duro e che dispone  di campi sperimentali. Così è nato il progetto Barilla Sustainable Farming:  «Scopriamo che le corrette rotazioni del grano duro con altre colture sono fondamentali e che le soluzioni che gli agronomi di Horta propongono sono migliorative sotto tutti i punti di vista: da quello della resa a quello economico. Si parla del 30% di costi in meno. La rotazione tra specie diverse consente di migliorare la fertilità del terreno e quindi di ridurre l’uso dei fertilizzanti e la quantità di altri prodotti chimici. Horta possiede un’enorme mole di dati e di analisi storiche, che permettono di fare una comparazione tra diverse  modalità di coltivazione. Si tratta di capire quali possono essere le rotazioni nei diversi areali italiani di nostro interesse, dove abbiamo i mulini – in Emilia, Marche, Puglia –, e quali da un punto di vista agronomico consentono di ridurre l’uso dei fertilizzanti e, in generale della chimica, in modo da fare un confronto con quello che normalmente si fa oggi». 

Horta collabora con Barilla anche su questo terreno, valutando gli impatti ambientali delle diverse rotazioni nei vari contesti locali – se cambiano, cambiano le soluzioni – e l’efficacia dei fertilizzanti, cioè la resa del terreno. Con loro collabora al progetto anche lo studio torinese LC Engineering, esperto nella valutazione del ciclo di vita, e assieme mettono a punto un Decalogo con tutte le indicazioni per la coltivazione sostenibile  del grano duro di qualità, un’applicazione web, granoduro.net, di suppor to alle decisioni (DSS) che tramite una stazione meteorologica aziendale  permette di seguire gli andamenti climatici nelle varie fasi della coltivazione e di segnalare quando è più opportuno effettuare alcune operazione colturali (per esempio, un trattamento funghicida) e l’introduzione in Italia di  una varietà di grano duro d’alta qualità. «Barilla è il primo produttore di  pasta e l’Italia è deficitaria di grano duro», precisa Ruini. «Se il grano duro non è della qualità di cui abbiamo bisogno, lo scarto è enorme. Con i nostri fornitori avevamo già introdotto il contratto di coltivazione per ottenere  una quantità di prodotto sufficiente per mantenere il nostro elevato livello di produzione di pasta. Convinti della validità del modello di coltivazione messo a punto, abbiamo provato a inserire nei nostri contratti il Decalogo e l’uso gratuito di granoduro.net. Ciò con l’idea di persuadere il coltivatore  che utilizzandolo avrebbe potuto incrementare il suo reddito». 

Il successo della sperimentazione 

E i diretti interessati come hanno reagito?, chiediamo noi. «Non è stato  facile introdurre il Decalogo e granoduro.net nei contratti perché gli agricoltori sono molto tradizionalisti. Abbiamo iniziato le sperimentazioni con  grandi aziende agricole nostre fornitrici. In fondo si trattava di utilizzare solo una piccola parte dei loro campi e nell’operazione abbiamo coinvolto  anche Coldiretti, importante per il numero delle imprese associate. L’idea  era che convincendo alcuni agricoltori, a fronte della convenienza complessiva della nostra proposta in termini economici – più reddito e meno costi  per l’acquisto di fertilizzanti –, questi potessero a loro volta convincerne  altri». Visto il successo della sperimentazione, anche per quanto riguarda  il miglioramento e la riduzione degli impatti legati alla produzione, Barilla  decide di allargare ad altre materie prime il suo modello di un’agricoltura sostenibile per l’ambiente ed economicamente conveniente. Racconta Ruini: «Oltre al grano duro, Barilla acquista anche altre materie prime: zucchero, olio di semi, pomodoro e basilico e spesso nelle stesse aree e dagli stessi  produttori. Considerato che per contratto impone le rotazioni, perché non  mettere attorno a un tavolo tutti i fornitori e proporre loro un pacchetto di rotazioni pluriennali con tipi di colture i cui prodotti vengono acquistati  da Barilla? Gli agricoltori ruotano questi tipi di colture e Barilla li acquista.  Da questo ragionamento, grazie anche alla collaborazione di cooperative  e consorzi, sono nati gli accordi orizzontali di filiera, che permettono all’agricoltore di effettuare una corretta programmazione dell’uso del suolo». E così il cerchio si chiude, non è vero? Ruini sorride e parla di un frutto  inatteso, ma importante, del progetto Barilla Sustainable Farming. Nella coltivazione del grano duro, racconta, l’uso del DSS – che tiene conto delle condizioni meteorologiche sul campo (dai periodi di siccità alla quantità di precipitazioni) e studia le soluzioni per ottenere la massima resa agricolam in queste condizioni – funziona come un efficace sistema di adattamento al cambiamento climatico. Ecco la scoperta! E, riprendendo il filo del  discorso risponde così alla nostra domanda: «Per completare il progetto vorremmo fare un passaggio ulteriore: certificare il nostro modello, dimostrando che con la sua applicazione si ottiene una riduzione complessiva degli impatti ambientali fino al 30%, il che vuol dire 400 chili di CO2 equivalente per tonnellate di grano duro, così da accedere al mercato dei crediti di carbonio. Ci stiamo provando. Abbiamo appena avviato un pilota per verificarne la fattibilità».

Il mare, una risorsa da preservare 

Tra le risorse più essenziali considerate maggiormente a rischio dagli effetti del cambiamento climatico c’è sicuramente il nostro mare. Riserva ricchissima di differenti e pregiate specie ittiche, il Mediterraneo è stato al centro di molti studi che hanno sottolineato – oltre alle problematiche legate all’inquinamento – alcuni importanti cambiamenti in termini di aumento della temperatura e di acidità delle sue acque. Allora come preservarlo in qualità non solo d’incontaminato «mare interno», ma anche di fonte di sostentamento e lavoro per gli operatori del settore della pesca, allo stesso tempo conservando la varietà di specie fondamentale per la nostra alimentazione? 

Ne abbiamo parlato con Antonio Gottardo, responsabile Pesca di Lega coop Veneto, che si occupa dell’intero comparto – pesca in mare, acqua coltura, allevamento e anche gestione della fascia costiera. A lui abbiamo chiesto di raccontarci come si stanno muovendo le cooperative di pescatori una volta preso atto della metamorfosi delle acque dell’Adriatico. 

«Per certi versi il pescatore è il mestiere più antico del mondo», esordisce  Gottardo. «Una riflessione su quest’attività non può prescindere o essere  scissa dalla risorsa. Se è presente il pescatore lavora, altrimenti no. Per questo sono finiti i tempi della pesca ‘selvaggia’ e siamo entrati nella fase della  gestione della risorsa». 

Come avete capito che è questa la strada per far vivere il settore? «Lo abbiamo compreso perché ci sono state negli ultimi anni una serie di morie, che hanno provocato danni consistenti soprattutto alla molluschicoltura e in particolare per le vongole di mare e di laguna. Non sempre si è risaliti alle cause di questi eventi: c’è chi parla di inquinamento, chi di altro, ma quello che riportano i pescatori sul campo è che la temperatura dell’acqua si sta riscaldando e che c’è un fenomeno di tropicalizzazione della fauna ittica. Ci sono anche specie, che prima non esistevano. Non parlo di ricerche scientifiche, ma di quello che vedono gli operatori tornando a riva con le loro  barche. Di sicuro alcune tipologie di pesci, che prima si trovavano in Egitto o nei mari del Sud, si sono adattate alle alte temperature dell’Adriatico». 

Questo riscaldamento delle acque rappresenta un fattore negativo per il  vostro lavoro? «Non per forza», ci spiega Gottardo. «Se da un lato favorisce  il rinnovamento della fauna, dall’altro è impossibile non adattare l’attività di pesca a questo fenomeno. Qualcuno la chiama ‘resilienza’. Di sicuro  abbiamo avvertito il cambiamento».  

Cosa hanno fatto le cooperative di pescatori per affrontare questa situazione? «Hanno imparato a fare i piani di gestione», ci risponde. «Oggi puntiamo sull’autogestione e sull’autoresponsabilità dei pescatori, che sono  portatori non solo di cultura e sapere, ma soggetti importanti della nostra economia. E sono loro che per primi devono tutelare il mare, la risorsa. Per far questo, stiamo approntando dei piani di gestione anche nell’ottica del cambiamento climatico. Se non sei pronto ad adattarti, infatti, finisci per subire le conseguenze dei processi di cambiamento. Nel caso delle morie, per esempio, non puoi garantire quella continuità di fornitura di prodotto che attualmente richiede tutto il mercato: dalla grande distribuzione agli operatori del ‘chilometro zero’».  

A questo punto, incuriositi, domandiamo di farci un esempio su come questi piani di gestione possano migliorare il lavoro dei pescatori. 

«Per esempio, se ti trovi in una zona in cui c’è tanto pesce, si può prendere il prodotto seminale e portarlo in un’altra area in cui è più scarso. In questo siamo affiancati da un istituto di ricerca riconosciuto dal Ministero delle Risorse agricole comunitarie, che insieme a noi opera e monitora appunto questo tipo di spostamento. Implementiamo poi delle azioni di gestione di tutta la fascia costiera per tipologia di specie, per esempio la vongola di mare». E poi cos’altro contengono questi piani? «Programmano, in accordo con le disposizioni dell’Unione Europea, quante sono le barche attive, quanti gli uomini, quanto il cosiddetto ‘sforzo di pesca’, qual è il periodo e quali i giorni precisi in cui si lavora. Noi siamo partiti con questa programmazione per quanto riguarda la pesca delle vongole. Quest’anno abbiamo chiuso anche i piani di gestione per la piccola pesca sempre sulla fascia costiera».

Quali altri interventi avete implementato rispetto ad altre specie? «Ci siamo concentrati sulle uova di seppia, un prodotto sempre più utilizzato in cucina. Recuperiamo le uova piccoline, che altrimenti andrebbero perse, e le conserviamo nelle vasche di raccolta, finché crescono, poi le liberiamo. È un modo per salvaguardare le specie autoctone. Per quanto riguarda invece i pesci con la coda, con le reti a strascico è stato molto positivo l’aver disposto il fermo di pesca. Da agosto fino a metà settembre sono stati disposti 45 giorni di interruzione dell’attività e da settembre a dicembre la riduzione delle attività di pesca una giornata alla settimana. Questo ha consentito alla risorsa di riprendersi». 

Abbiamo letto che sul fermo di pesca volete coinvolgere anche gli operatori della Slovenia e della Croazia. «È una scelta logica», ci risponde Gottardo, «perché non esiste una linea di confine per i pesci. Dopo la fine della guerra in Jugoslavia, in Croazia e in Slovenia sono state acquistate molte  imbarcazioni dismesse dall’Italia e sviluppate le attività di pesca del pesce azzurro e di acquacoltura. I due Paesi hanno investito molto nel settore ittico e hanno un buon giro d’affari. Per questo sarebbe necessario stipulare  un accordo, senza il quale i risultati del nostro fermo pesca verrebbero vanificati».  

L’innalzamento delle acque 

Ci sono Paesi dell’Unione Europea da cui poter prendere spunto per implementare buone pratiche? «Con un pizzico di presunzione, potrei dire che siamo per primi una best practice, grazie all’esperienza dei consorzi di  pescatori, che gestiscono le risorse nella fascia costiera e che dal punto di vista economico hanno aumentato i loro utili. Tra tutti cito il consorzio di Scardovari (Rovigo), che dà lavoro a 1.500 addetti, con 70 milioni di euro di fatturato. È il primo a livello italiano».  

Ci sono altri cambiamenti rilevanti che avete riscontrato nell’Adriatico, che potrebbero essere legati al clima? Gottardo ci pensa un po’, poi risponde: «L’innalzamento delle acque, che inizia a sentirsi a Venezia e in alcuni paesi costieri come Chioggia. Un fenomeno che ha un impatto importante  sulla pesca dell’Alto Adriatico e della laguna veneziana, che è una sorta di ‘nursery’ naturale di tutti i tipi di pesce con la coda e delle piccole vongole. Tutto si basa su un gioco di maree, crescenti e calanti. Negli ultimi anni l’innalzamento del livello dell’acqua ha creato, per esempio, una riduzione delle seppie e un aumento di specie come orate e branzini, che sono dei predatori molto forti. Anche in questo caso adottare strategie di adattamento è l’unica strada». 

Prima accennava al fatto che con l’aumento della temperatura dell’acqua  sono arrivate specie nuove. Può farci un esempio positivo di questo fenomeno, in cui la nuova specie supplisce alla scomparsa della vecchia? «Il caso  della Venerupis philippinarum o vongola filippina», afferma il responsabile di Lega coop, «di cui la laguna di Venezia è una delle più grandi produttrici. È  stata importata: si tratta di un prodotto alloctono che si è radicato nel nostro  mare e di fatto ha sostituito la vecchia vongola verace nostrana. È diventata un business incredibile. Diverso è il caso in cui nel mare compaiono specie  che non conosci e non sai quale può essere il loro impatto sulla fauna locale. Per esempio in Puglia è comparso un pesce tipico delle zone indiane, molto  pericoloso. 

In ogni caso sono convinto che il pesce migliore – e da salvaguardare – sia  quello autoctono, per questo il problema della tropicalizzazione è quello che mi preoccupa di più. Che rapporto avranno nuove e vecchie specie?  Alcuni istituti di ricerca – tra cui l’ICRAM-CNR, l’istituto di ricerca nazionale applicata al mare – sono al lavoro per studiare i nuovi ‘arrivati’ e il loro processo di adattamento nei nostri mari». 

Considerato quanto ci hanno riferito in precedenza Tomasi e Ruini a proposito degli effetti del riscaldamento globale sui vitigni e sulle colture italiane, chiediamo a Gottardo se questo fenomeno possa in qualche modo influenzare anche la fauna ittica. «Probabilmente sì. L’aumento della temperatura dell’acqua accelera i processi di crescita di qualche specie. Penso a quanto accennavo prima, alla produzione abnorme e insolita di branzini di due anni fa e quest’anno di orate e alla riduzione di un prodotto strategico per noi come le seppie, in calo da alcuni anni: l’incremento enorme di pesci predatori, che ne mangiano le uova, porta a una diminuzione del pescato».  

Questo è connesso anche al fenomeno di acidificazione delle acque? Gottardo ci spiega che i risultati degli studi microbiologici effettuati sui prodotti – crostacei, cozze e vongole – non rilevano alcun aumento dell’acidificazione, ma che per quanto riguarda il controllo delle acque l’ente competente è l’ARPA, che da anni registra un’inversione di tendenza rispetto all’inquinamento marino. «L’acqua è più pulita e paradossalmente questo è un elemento negativo per i filtratori, come la cozza o la vongola:  più l’acqua è sporca e più ce ne sono», dice. 

Come ci si accorge dell’acqua che cambia e di come cambia? «A notare il mutamento sono i vecchi pescatori con il naso, gli occhi e le mani», ci spiega. «Per me sono dei veri e propri consulenti e mi informano di come è  cambiato il tasso di umidità o lo spirare dei venti. Uno di loro, per esempio, mi ha raccontato di come in laguna sia sempre più facile imbattersi in quella  che con un’espressione gergale viene chiamata ‘acqua grassa’, che ha una  consistenza particolarmente gelatinosa e impedisce di pescare. Queste ‘sentinelle’ mi hanno detto di correre ai ripari, al di là delle ricerche scientifiche». 

Sembra dunque che il settore della pesca abbia raccolto la sfida del cambiamento climatico, mutando modello di business e accrescendo la  consapevolezza dei suoi operatori. 

«A volte si fa fatica a spiegare ai pescatori che questa nuova visione della  pesca, basata sullo sviluppo sostenibile e gestito del settore, non è solo  un’utopia ambientalista, ma garantisce loro reddito e occupazione», ammette Gottardo. «Questo è l’unico modello che consentirà di costruire un futuro per i nostri figli»


Fonte/Testo originale: Pasquale Alferj, Alessandra Favazzo ‘Tre buone pratiche, in presa diretta’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 2, dicembre 2017, Il Mulino.

Note

  1. È stato, per esempio, uno dei leader della battaglia legale intrapresa per bloccare il Clean Power Plan, il piano per l’energia  pulita approvato dall’amministrazione Obama.
  2. Abbiamo seguito la ricostruzione fatta da V. Laramée de Tannenberg e Y. Leers, Menaces sur le vin, Parigi, Buchet-Castel, 2015 (gli articoli citati sono quelli di L. Hannah et al., Climate Change, Wine,  and Conservation e di C. van Leeuwen, Why Climate Change will Not Dramatically Decrease Viticultural Suit ability in Main Wine-Producing Areas by 2050, entrambi in «PNAS», vol. 110, 2013).
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