Dicembre 2008 – Un’altra splendida giornata si spalanca dietro le nostre finestre. Spalancate dunque anche le finestre. Il sole brilla, gli uccellini cinguettano, il ruscello gioca con l’erba che lo stringe ai due lati. Respirate a pieni polmoni: è aria, aria pura, profumata di resina e di sottobosco, e il cielo è sempre più blu. E se qualcuno vi racconta che da qualche parte c’è il lupo, che mangia mangia mangia tutto e un giorno fatalmente mangerà anche voi, non dategli retta e ricordatevi che tutta la bellezza del mondo è gratis, che né voi né nessun altro ha speso un centesimo per averla.
Qualche buontempone ha previsto che l’esperimento al CERN di Ginevra (un’intera città distesa a chiusura di un bel lago, una città che fu sede della Società delle Nazioni e continua a essere una delle capitali d’Europa, se ne sta seduta con le sue banche, il suo cioccolato e i suoi orologi sul più grande acceleratore nucleare del mondo) produrrà un buco nero, e che prima o poi questo buco nero – avesse pure il diametro pari alla capocchia di uno spillo – continuerà a mangiare mangiare mangiare finché un giorno mangerà anche noi, e con noi Ginevra, la Svizzera, tutto il suo cioccolato, tutte le sue banche, l’Europa, il mondo.
Ma voi potete gioire ugualmente per il sole e per gli uccellini, e non solo perché la notizia del buco nero è una baggianata alla quale solo i media, questi potenti moltiplicatori di paure, possono dar credito, ma anche perché c’è qualcosa che nessun buco nero potrà mai inghiottire, dal momento che non ha materia. La nostra anima? I nostri ideali? Forse. Io però mi riferisco a qualcosa di altrettanto immateriale, ma molto più prosaico dell’anima e degli ideali, che sarà sicuramente indigesto anche al più affamato dei buchi neri. Mi riferisco alla finanza, ai valori che salgono e scendono, obbedendo tanto all’economia quanto al gioco dei sentimenti umani, e ai suoi flussi miliardari che attraversano il mondo in un batter d’occhio.
Miliardi di chi? Frutto di quale lavoro? Di quali sacrifici? Di quale sudore?
Finanza sgonfiata
Il crac Lehman Brothers è di quelli che accendono la fantasia. Arguti giornalisti hanno descritto il disfacimento dell’impero Lehman con toni da film: top manager ridotti sull’angolo di una strada, senza lavoro e senza più casa, senza un soldo, con i propri pochi averi raccolti alla rinfusa in uno scatolone di cartone. E già distinguiamo tra loro le facce dei soliti Brad Pitt, George Clooney, Matt Damon, pronti per il nuovo film su questo crac e sul riscatto dei suoi poveri eroi.
Peccato solo per l’ostinazione della realtà a non dotare tutte le sue imprese finanziarie di un George Clooney o di un Brad Pitt. Peccato per tutti coloro che erano stati indotti ad accendere mutui, e che hanno visto i loro tassi schizzare alle stelle. Peccato per la vecchia sana cultura del risparmio, che l’ambizione e l’avidità degli uomini (e non soltanto le auree leggi della finanza) hanno distrutto, persuadendo chi sudando si guadagnava il pane che fare debiti non è un disastro, anzi è molto trendy.
Perché misurare sul borsellino l’acquisto di una piccola automobile quando puoi avere una macchina sportiva, e magari anche un SUV? Perché vietarti una vacanza di sogno solo perché non hai più denaro?
E poi non chiamatelo denaro – questa parola che mette soggezione. Parliamo piuttosto di liquidità. Hai un problema di liquidità? Questo non significa essere poveri.
Un intervento delle Banche Centrali serve natural mente a rialzare gli indici e anche il buonumore (meglio di una striscia di coca), e il buonumore è un motore indispensabile della finanza, che teme la malinconia e la depressione come una lebbra. Ma l’impressione è che i problemi non verranno risolti se si ricomincerà a camminare sulla stessa strada.
Questa crisi non è un incidente di percorso.
Esistono altri acceleratori di particelle, ben più potenti e pericolosi di quello di Ginevra. Che cos’è l’attuale mercato finanziario se non un acceleratore di particelle di ricchezza, governato da uomini che non hanno nessuna idea della sua origine, delle circostanze concrete che l’hanno fatto esistere?
Che ne sai, anzi, cosa sei tenuto a sapere del lavoro che ha prodotto i «pacchetti» che tu maneggi in modo più o meno spregiudicato? Della fatica, dei sacrifici, delle difficoltà, oppure della furbizia, della mascalzonaggine, dei crimini da cui proviene la materia del tuo lavoro? Niente. Puoi mandare in fumo miliardi e continuare a percepire il tuo lauto stipendio – fino al crac: com’è accaduto nel caso della Lehman Brothers. La strada che ci separa dal vecchio capitalismo – quello in cui si investiva solo denaro proprio – è lunghissima e di difficile decifrazione. Come nella meteorologia e nelle altre scienze della complessità, spesso eventi eterogenei e casuali producono effetti che si tra sformano in nuovi modelli, da cui si sviluppano infinite diramazioni. Dalla scoperta del petrolio alla nascita di un nuovo modello di concentrazione di capitali, dalla differenziazione degli investimenti all’abbattimento delle frontiere finanziarie, dalla moneta frusciante alla carta di credito è tutto un gioco di congiunzioni, rigonfiamenti, modificazioni oltre, naturalmente, a qualche esplosione.
La duratura lezione dei maestri
Tuttavia, nell’incertezza dei modelli si fa strada la certezza che sia in atto una crisi antropologica di enormi proporzioni, di cui quella finanziaria non è che la pallida maschera.
Le polemiche che hanno accompagnato l’inizio del nuovo anno scolastico, soprattutto in seguito ad alcune prese di posizione del Ministro Gelmini, ci mostrano il quadro di una scuola in stato di grave sofferenza, con molte difficoltà a capire quello che deve chiedere a se stessa e alla società. È una crisi di domande, che trascina con sé altre crisi.
La trasmissione di conoscenze e valori da una generazione all’altra è una necessità naturale come la nutrizione o la riproduzione: è il punto di connessione tra natura e cultura.
Si celebra quest’anno, oltre a quello di Claude Lévi-Strauss, il centenario di un personaggio che non ha acquistato fama o onori, e sembra appartenere a una specie estinta – quella dei grandi educatori. Se voi cercate su internet il nome di Sofia Vanni Rovighi, non troverete altre notizie che quelle riguardanti la disponibilità dei suoi libri, molto in uso ancora oggi in diverse università.
Sofia Vanni Rovighi fu mia insegnante all’università. Di lei conservo ancora diverse opere, che consulto spesso: dalle introduzioni a Kant e a Tommaso D’Aquino alle storie della filosofia medievale e moderna, ai tre preziosissimi volumi degli Elementi di filosofia (ed. La Scuola). Tutte opere che raccolgono i testi delle sue lezioni, concepite come semplice sussidio allo studio quotidiano, senza nessuna pretesa di rinnovare il pensiero umano.
Questa donna straordinaria ha consumato tutta la sua esistenza senza alcun interesse per il prestigio e la ricchezza, donando la propria vita, in totale umiltà, all’educazione dei giovani.
Inutile cercare notizie curiose nei risvolti della sua biografia: la biografia di Sofia Vanni Rovighi coincide totalmente con la sua missione. Per lei l’educazione era un compito naturale, come il sorgere del sole o lo scorrere dell’acqua nei ruscelli.
La crisi antropologica che stiamo attraversando si vede anche da questo: che le persone come lei stanno scomparendo.
Aprite la vostra finestra, amici cari, su queste belle giornate, e ricordatevi che, come il sole splende senza che nessuno l’abbia comprato, così la comunicazione della conoscenza e dei valori che ci fanno vivere con un senso chiede di essere attuata, fin da quando il bambino comincia a formulare i suoi interminabili «perché».
Di questo abbiamo bisogno, più che di una nuova strategia finanziaria: di uomini capaci, senza alcuna ostentazione di eroismo, di dare la vita per questo compito che, in ultima analisi, appartiene a tutti noi, perché tutti noi sentiamo, in fondo, che la vita è monca se non è capace di generare.
Fonte/Testo originale: Luca Doninelli ‘Il mondo non sparisce’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 3, dicembre 2008, Il Mulino.