Che cosa è un quartiere? Una visione classica
Che cos’è un quartiere? Che cosa lo definisce, che cosa lo connota, che cosa ne determina l’identità? Quando un quartiere si può considerare bello da vivere?
Certamente posizione geografica, struttura viaria, architettura sono elementi essenziali e sicuramente caratteristici, ma quel che veramente connota un quartiere è l’insieme di relazioni che si configurano tra gli abitanti, dalla piacevolezza o meno dell’abitarci derivante dai rapporti umani che si creano.
Nella visione, ormai classica, introdotta da Jane Jacobs, alla base di un quartiere accogliente deve esserci una struttura sociale solida di fondo, una spina dorsale di relazioni quotidiane che crei il substrato di relazioni positive quotidiane e che permetta alle iniziative degli attori istituzionali di trovare un terreno fertile per svilupparsi e portare frutti.
«Spesso gli urbanisti, – scrive Jane Jacobs nel 1961 – come anche certi assistenti sociali, credono che lo sviluppo degli organismi sociali di tipo formale sia direttamente legato all’esistenza di problemi di ovvio interesse collettivo, di locali di riunioni, di annunci che invitino la gente a partecipare alle riunioni. Ciò può essere vero nelle piccole città o nei suburbi, ma non nelle grandi città, dove gli organismi pubblici di tipo formale presuppongono un sottofondo di vita collettiva spontanea che faccia da mediazione tra gli organismi stessi e l’isolamento individuale tipico della grande città1».
Tradizionalmente, nelle aree urbane questo sottofondo di vita collettiva spontanea si concretizza nel reticolo di relazioni quotidiane che nascono dalla frequentazione della rete di piccoli e piccolissimi operatori economici di quartiere, siano essi negozi, artigiani, piccole imprese, professionisti locali.
Tuttavia per ottenere questa solida spina dorsale di quartiere non basta che vi siano delle strade con attività economiche, serve che gli abitanti le percepiscano come un ambito di relazione perché, come ricorda sempre Jane Jacobs, «non è possibile costringere la gente ad usare strade che non ha nessuna ragione di usare2».
Un quartiere è vissuto, dunque, quando non solo vi sono strade, negozi, artigiani e professionisti, ma quando queste strade, negozi, artigiani e professionisti favoriscono e alimentano una rete spontanea di relazioni, data da conoscenze personali, interessi convergenti, cura e presidio del territorio.
Questa rete di relazioni costituisce un reticolo immateriale eppure estremamente percepibile ed è il risultato di anni e decenni di scambi, relazioni professionali, incontri, scontri, amicizie e inimicizie, adeguamenti collettivi al cambiare dei tempi e dei costumi, sino ad arrivare a esprimere un’etica comune e valori condivisi.
Un quartiere cambia sempre, ma riesce a mantenere un’identità solo se riesce a rimanere sé stesso, o se riesce nel compito ancor più difficile di reinterpretare i valori condivisi dai propri abitanti e di esprimerli sotto nuova forma.
Cambiamento e rigenerazione urbana
In un quartiere la crescita e il cambiamento sono essenziali, tuttavia è fondamentale che la crescita avvenga sotto forma di crescita organica, che ogni evoluzione e rivoluzione entrino in dialogo col tessuto socio-economico già presente e vi si innestino. Il cambiamento può, certo, creare frizioni o discontinuità, ma deve essere capace di venir metabolizzato dal quartiere e divenirne parte integrante e riconosciuta dal quartiere stesso.
Non sempre questo è facile, perché il cambiamento a livello urbano non è solo frutto di una lenta e costante trasformazione determinata da spinte interne ai quartieri, ma può essere stimolato e accelerato da eventi catastrofici o da interventi mirati volti a riqualificare zone degradate, o fenomeni di inurbamento e da esigenze abitative di determinate classi sociali, o da molte altre cause, non escluse le pressioni speculative.
Favorire un cambiamento organico in un quartiere senza generare esclusione sociale, o trasformare un’area dismessa in un quartiere accogliente, vivace, sicuro e vissuto sono le prime e più importanti sfide che si pone chiunque approcci il tema della rigenerazione urbana e sono anche tra le più difficili alle quali dare risposta.
Non ogni progetto di riqualificazione di un’area o di un edificio può essere considerato un progetto di rigenerazione urbana, perché nel concetto di rigenerazione vengono compresi anche gli aspetti ambientali ed economici e quelli sociali e culturali, con la modificazione delle caratteristiche socio-economiche del quartiere in termini di miglioramento atteso di aspetti quali sicurezza, socialità e qualità delle relazioni tra abitanti.
Un progetto che abbia impatto a livello di quartiere può essere una riconversione di aree industriali abbandonate, con investimenti ingenti e ampio coinvolgimento degli enti di governo del territorio. Può tuttavia essere anche un progetto molto più piccolo, a guida prevalentemente privata e con presenza del pubblico più con funzione di tutela e garanzia che di regia, come ad esempio la riqualificazione e ri-funzionalizzazione di un edificio particolarmente grande, importante o simbolico del quartiere, tale da avviare e favorire una rigenerazione di tutto il tessuto urbano circostante.
In moltissime città europee di medie e grandi dimensioni la questione della rigenerazione di ampie aree urbane è molto attuale.
Talvolta si tratta di aree residenziali degradate, talvolta di aree ex-industriali in disuso, talvolta di aree periferiche che vengono inglobate nel tessuto urbano dall’allargamento delle città.
Tuttavia, non è facile trasformare quartieri problematici in quartieri piacevoli da frequentare ed è ancora più difficile realizzare un quartiere partendo da zero, come ben sa chiunque frequenti città di medie o grandi dimensioni avrà ben presenti casi di tentate riqualificazioni fallite, o realizzate solo in parte, o in tempi estremamente lunghi.
Quale impatto della rigenerazione urbana?
Per valutare l’impatto degli interventi di rigenerazione urbana, il programma ESPON 2020, nel Policy Brief Reuse of spaces and buildings3 ha analizzato e valutato sotto il profilo della sostenibilità sociale, economica e ambientale circa 200 tra i maggiori interventi di rigenerazione urbana e rurale realizzati in tutta l’Unione Europea tra il 2000 e il 2018, basandosi sui risultati delle attività ESPON di ricerca applicata CIRCTER, COMPASS, GRETA, SPIMA e SUPER e l’analisi ENSURE.
ESPON 2020 (European Spatial Planning Observation Network) è un programma comunitario di ricerca applicata, che supporta l’attuazione delle politiche europee migliorando la conoscenza del territorio europeo e delle dinamiche di sviluppo, anche mediante la creazione di una comunità scientifica che si occupa di sviluppo territoriale.
Le tipologie di interventi di urbanizzazione e riurbanizzazione a bassa intensità tipici di zone rurali e scarsamente popolate vengono definiti da ESPON ‘Policentrici’ e ‘Diffusi’. Gli interventi tipici delle grandi aree urbane, ovvero lo sviluppo concentrato ad alta densità legato a terreni già edificati e la riqualificazione delle aree dismesse, vengono invece definiti ‘Compatti’.
Per valutare se gli interventi potessero essere definiti di urbanizzazione sostenibile, sono stati presi in considerazione diversi indicatori di sostenibilità, raggruppati sotto le macrocategorie della sostenibilità economica, ecologica e sociale.
Per quel che riguarda gli interventi Compatti, nel complesso raggiungono ottime performance esclusivamente sotto il profilo della sostenibilità economica, mentre ottengono risultati mediocri sotto il profilo della sostenibilità ecologica.
Per quel che riguarda la sostenibilità sociale, gli interventi Compatti ottengono performance moderatamente positive solo negli indicatori direttamente collegati alla qualità architettonica e urbanistica dei progetti, ovvero ‘varietà delle tipologie di immobili’ e ‘quantità di aree ad uso misto’.
Per quel che riguarda, invece, gli indicatori ‘Salute’, ‘Disponibilità di alloggi economici’, ‘Equità/inclusione’ e ‘presenza di Spazi pubblici e ricreativi’ i risultati degli interventi Compatti sono poco incoraggianti e contradditori, con la presenza di ‘risultati conflittuali tra gli studi esistenti’.
Gli interventi Compatti, infine, sono valutati come portatori di ‘impatto negativo’ per qual che riguarda la generale ‘Soddisfazione per l’ambiente di vita’.
ESPON riporta risultati migliori rispetto ai medesimi indicatori di sostenibilità sociale in riferimento agli interventi di urbanizzazione policentrici e diffusi, portati avanti in zone rurali o comunque estremamente periferiche, a riprova della difficoltà di promuovere una crescita organica all’interno di interventi di riqualificazione portati avanti in contesti, come le aree urbane, socialmente sfidanti.
Più in generale, la nota di ESPON rende visibile sotto una luce unitaria una questione ben nota a chi si occupa di rigenerazione urbana, ovvero la difficoltà di bilanciare la riqualificazione socio-economica di un’area con il rischio di gentrification che sempre vi si accompagna.
Lo spettro della Gentrification
Il termine gentrification è stato utilizzato per la prima volta in ambito accademico nel 1964, quando la sociologa Ruth Glass definì con tale termine la sostituzione avvenuta in ampie zone semicentrali di Londra della popolazione composta da fasce popolari operaie con classi sociali abbienti4.
Il tema della gentrification è abbondantemente studiato ed esistono moltissime definizioni di gentrification, legate al periodo storico, allo specifico ambito studiato di volta in volta e all’ambito di appartenenza degli autori che le propongono.
Il significato originario di ‘imborghesimento’ si riferisce a quel che viene oggi considerata l’accezione ‘classica’ del termine gentrification, che da allora è stato usato con sempre maggiore popolarità, assumendo svariate connotazioni in funzione delle specifiche situazioni.
Il termine gentrification inizia a divenire popolare ed essere utilizzato in maniera diffusa in particolare a partire dai primi anni 2000, quando si è assistito a un incremento massiccio dei progetti di rigenerazione urbana, sia sotto forma di progetti di recupero di aree residenziali degradate, sia come progetti di urbanizzazione o ri-urbanizzazione di aree ex-industriali dismesse.
Nel primo contesto indica il cambiamento di un quartiere senza evoluzione, l’innesto di corpi socio-economici estranei senza relazione col tessuto socio-economico esistente, la perdita di consuetudini e tradizioni, la spersonalizzazione dei rapporti umani, lo sperpero e frammentazione del capitale culturale accumulato, lo sfaldamento dei valori condivisi e di un’etica comune espressa dagli abitanti del quartiere5. Nel secondo contesto, invece, la creazione di zone della città caratterizzate da una ridotta stratificazione socio-professionale, inaccessibili a fasce di popolazione di ceto basso o medio-basso, ma anche connotate dalla povertà di relazioni interpersonali e dalla mancanza di un complesso di relazioni sedimentate6.
Note
- J. Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House, 1993 [1961].
- Ibidem
- ESPON 2020 Policy Brief Reuse of spaces and buildings https://www.espon.eu/sites/default/files/attachments/Policy%20Brief%20Reuse%20of%20spaces%20and%20buildings.pdf
- R. Glass, London: Aspects of Change London, University College, Centre for Urban Studies, 1964.
- L.D. Hom, Symbols of Gentrification? Narrating Displacement in Los Angeles Chinatown, in “Urban Affairs Review” (58-1), 2022, pp. 196–228.
- P. Rérat, O. Söderström, E. Piguet, New forms of gentrification: Issues and debates, Popul, in “Space Place” (16), 2010, pp. 335–343.