L’Africa degli stati deboli

Nella comprensione della triste sorte dell’Africa, come nelle discussioni politiche per trovare una soluzione, il ruolo dello stato è apparso sistematicamente un fattore decisivo.

Autore

Matthew Lockwood

Data

20 Luglio 2023

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20 Luglio 2023

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Aprile 2006 – È da più di venti anni che i donatori cercano di cambiare l’Africa. Un opinionista recentemente, dopo aver descritto il declino dello Zambia nell’ultimo quarto  di secolo, aggiunge: 

«Durante una buona parte di questo periodo, lo Zambia ha ricevuto il sostegno della comunità internazionale. Ora, quasi tutti gli sforzi non hanno fatto altro che aggravare le cose. Come un paziente che elude le scienze mediche, lo Zambia è stato messo sottosopra e pungolato dagli esperti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che hanno prescritto più volte una terapia d’urto. Il risultato è stato il peggioramento della povertà, mentre il debito estero ha conosciuto una crescita spettacolare» (Adams  2004, p. 11).

Questa immagine sorprendente vale più in generale per l’Africa sub-Sahariana. In un primo tempo i donatori si sono focalizzati sulle politiche che ai loro occhi apparivano cattive in base ai loro filtri ideologici. La lentezza dei progressi e il nascente sospetto che anche le «buone» politiche non si traducevano né in investimenti né in riduzione della povertà, hanno condotti i donatori a interessarsi alla cattiva qualità delle istituzioni: applicato allo stato, ciò voleva dire assenza di una «buona governance». Ora, in quanto quadro d’analisi, la governance ha immediatamente mostrato i suoi limiti e, i programmi di riformarla, i loro fallimenti. 

Nella comprensione della triste sorte dell’Africa, come nelle discussioni politiche per trovare una soluzione, il ruolo dello stato è apparso sistematicamente  un fattore decisivo. Se, al di là delle performance dello stato, ci si interroga sulla sua funzione, gli stati africani sembrano largamente anti-sviluppo, formando così un contrasto netto con gli stati pro-sviluppo dell’Asia dell’est e del sud-est. Molti problemi di sviluppo degli stati africani – tra cui la tendenza a esacerbare le diseguaglianze, a scoraggiare le capacità, a tollerare se non addirittura a promuovere la corruzione – sembrano persistere qualunque cosa i donatori facciano. 

Per comprendere i problemi dell’Africa e, se possibile, agire di conseguenza, la domanda cruciale è dunque questa: se lo stato in Africa non è là per incoraggiare lo sviluppo, qual è la sua funzione? Come sono apparsi questi stati anti-sviluppo? Quale logica politica assicura la loro coesione? Può essere cambiata?

La logica del clientelismo

Per rispondere a queste domande, un punto di partenza essenziale è la storia dell’evoluzione dello stato africano. Numerose descrizioni dell’Africa insistono sull’eredità materiale e umana del colonialismo, tra cui i lavori forzati, la pressione fiscale, un’infrastruttura traballante, un’industria sottosviluppata e dei servizi sanitari e scolastici insufficienti. L’eredità politica è stata, tuttavia, ancora più decisiva. La forma politica centrale del colonialismo, sia britannico sia francese, era l’indirect rule o «governo  indiretto». Anziché un colonialismo massiccio e diretto da parte degli europei, una confisca della terra dei nativi e la loro trasformazione in schiavi o in operai, il sistema di governo indiretto lasciò una classe contadina «libera» sulla terra, governata da «autorità tradizionali» (spesso inventate o ridefinite) (Ranger 1996). Mentre parte di questi terreni furono confiscati dai coloni che si stabilirono in Kenia, Rodesia e Sud Africa, anche in questi casi in realtà era il governo indiretto che veniva  applicato alla maggior parte della popolazione. Questa organizzazione spiega la natura molto particolare  dell’identità e dell’autorità politica in Africa coloniale. Il governo indiretto, stabiliva una distinzione cruciale tra il regime giuridico che valeva per i coloni europei e quello che si applicava alla popolazione africana: 

La leadership tribale è stata sia selettivamente ricostruita sotto forma di uno stato locale gerarchizzato sia, laddove non esisteva, è stata imposta come «società senza stato». Qui, la disuguaglianza politica andava di pari passo con quella civile. Entrambe trovavano la loro radice nel dualismo giuridico. Parallelamente alla legge acquisita, era implementato un diritto consuetudinario che regolamentava i rapporti non mercantili, trattandosi di terre o di affari personali (familiari) e comunitari. Per la popolazione assoggettata, gli indigeni, il governo indiretto era sinonimo di dispotismo per interposta persona, decentralizzato» (Mandani 1966,  p. 17). 

L’indirect rule presenta un certo numero di elementi importanti rintracciabili nella situazione politica contemporanea africana. Innanzitutto, gli «indigeni»  erano soggetti che appartenevano ai capi tribali e non dei cittadini che possedevano il diritto di associarsi liberamente e di eleggere dei rappresentanti politici nel quadro del diritto civile (Mandani 1966, pp. 18-19). 

I soggetti tribali erano sottomessi al diritto consuetudinario da autorità incaricate di far rispettare la tradizione, piuttosto che aperte al dibattito politico e al cambiamento. I capi tribali, sorretti dalla minaccia di un ricorso alla forza da parte della potenza coloniale, governavano mediante una mescolanza di costrizione autoritaria e di clientelismo. I capi distribuivano dei posti nel governo, delle terre, degli esoneri fiscali e delle dispense dal lavoro comunitario. Questa forma di  governo accentua l’identità «tribale» o etnica e spiega il fatto che, quando si verificarono delle sommosse, esse furono spesso d’ispirazione etnica: «I contadini insorti si organizzavano attorno a quelli che sostenevano essere i costumi autentici, puri e inalterati, contro una versione del diritto consuetudinario corrotto e imposto dallo stato» (Mandani 1996, p. 24). Generalmente le sommosse miravano a sostituire l’autorità, non a trasformare il sistema.

L’inevitabilità della decolonizzazione

Tutto questo dipendeva in parte dal fatto che i  contrasti tra il potere consuetudinario e quello civile  era evidente solo nelle città coloniali. È nella città che  apparve chiaro agli africani che spesso, nonostante  fossero degli operai qualificati, erano esclusi dai diritti  di cittadinanza, ed è nella città che iniziarono le lotte nazionaliste per strappare questi diritti. E sempre in  città i mercati funzionavano bene, mentre in campagna, proprio perché la terra era sottoposta alla consuetudine, la loro penetrazione restava sempre limitata. Un secondo tratto saliente del sistema era uno stato con «due braccia», il quale operava in modo molto differente in città o nelle zone rurali. 

Un terzo e ultimo aspetto del governo indiretto era che si trattava di un sistema certamente dispotico ma, a differenza del governo diretto, decentralizzato: non si appoggiava su un apparato di stato forte e centralizzato con molteplici rappresentanti e antenne attraverso il territorio. Si trattava di un imperialismo a buon mercato ed è precisamente questo che lo rendeva attraente alle potenze coloniali. 

Alla vigilia dell’emergenza dei movimenti e partiti nazionalisti e anticoloniali degli anni ’50, la vita politica era dunque caratterizzata, da una parte, da un gruppo relativamente modesto di operai urbani e di intellettuali in erba, coscienti di essere esclusi dalla pienezza dei diritti civili e, dall’altra, da una popolazione rurale ben più numerosa, sottomessa al diritto consuetudinario e governata da una classe autoritaria e semi-autonoma di capi locali, scelti su base etnica e che utilizzava un miscuglio di violenza e clientelismo. 

A quest’epoca, siamo nel dopoguerra del secolo scorso, la Gran Bretagna e la Francia s’incamminavano entrambe verso una strategia che riconosceva  l’inevitabilità della decolonizzazione. Inizialmente  prevedevano un progressivo trasferimento dei poteri, distribuito su un lungo periodo, all’ala più conservatrice dei movimenti nazionalisti. L’esperienza del confronto con Nkrumah in Ghana, alla fine degli anni ’40, suggerì  tuttavia ai britannici una nuova strategia consistente  nel cercare di rimettere al più presto possibile il potere  ai conservatori prima che gli elementi più radicali non prendessero in mano la situazione. I francesi fecero  altrettanto. Con questo cambiamento di rotta, la decolonizzazione doveva essere ormai un affare di anni e non di decenni, e avvenire attraverso una serie di elezioni a suffragio di massa che avrebbero permesso di formare dei governi africani con poteri sempre più estesi. Queste elezioni furono organizzate molto discretamente, obbligando le organizzazioni nazionaliste a mobilitare un immenso elettorato in  brevissimo tempo (Allen 1995, pp. 301-320, qui p. 304). 

Elezioni in assenza di società civile e opinione  pubblica

Doveva essere un momento politico decisivo. La  necessità di costituire al più presto delle alleanze politiche, nel breve periodo e con delle risorse minime,  e l’assenza, al di fuor delle zone urbane, di partiti politici organizzati, obbligarono i leader nazionalisti  – insegnanti, leader sindacali e funzionari, per natura  cittadini – a fare affidamento sulle strutture politiche  esistenti. Fu necessario trovare degli individui – spesso  dei capi o notabili – che avevano dei seguaci locali e utilizzare il clientelismo per legare questi uomini al partito e gli elettori locali ai candidati: 

Tutto sommato, gli elettori si vedevano offrire dei vantaggi materiali collettivi (strade, scuole, ambulatori, acqua  ecc.) in cambio dei loro voti, mentre i candidati e i notabili si vedevano proporre dei vantaggi personali (denaro contante, accesso a licenze, crediti, terre ecc.) oltre a essere presentati come i responsabili dell’arrivo dei vantaggi collettivi (Allen  1995). 

Nella maggior parte dei paesi, alla fine dell’epoca dell’Indipendenza, cioè all’inizio degli anni ’60, il  risultato che si ottenne fu un insieme di parlamentari  insediati localmente e sensibili alle richieste locali, ma vagamente legati al partito dirigente, i cui leader ormai avevano accesso alle risorse pubbliche (e in qualche caso  anche private). L’accesso alle risorse pubbliche divenne cruciale. Appena al potere, i partiti poterono utilizzare i fondi dei ministeri per consolidare ed estendere il loro sostegno. C. Allen cita l’esempio del partito popolare di Sierra Leone, che approfittò del suo controllo sul credito rurale per privilegiare i suoi sostenitori più influenti, i quali non dovettero mai rimborsare i prestiti.

Così, le condizioni del potere coloniale ormai tra montato e la rapidità del momento nazionalista dettero  luogo alla nascita di un sistema politico fondato sulla  protezione politica, conosciuto sotto diversi nomi, tra  cui clientelismo, neo-patrimonialismo e prebendismo.  Le pratiche clientelari avevano assunto delle forme  diverse: scambi tra protettori politici, concessione di  un «accesso privilegiato alle risorse statali razionate  da parte dei leader secondo una stretta logica politica» (Van de Walle 2001, p. 50) e la promessa di sostegno e di vassallaggio politico da parte dei clienti. 

Per coloro che fanno parte della rete clientelare, la lealtà verso il partito e i suoi dirigenti è stata ricompensata con un accesso alle risorse pregiate. Queste potevano essere trasferite a degli affiliati di minore importanza, o agli elettori per rafforzarli nella loro lealtà o, al contrario, conservate ai fini di arricchimento personale (Allen 1995, pp. 304-305).

Dal clientelismo alla corruzione

Fin dai primi anni d’indipendenza degli stati afri cani, è apparso chiaro che il clientelismo aveva una  certa logica che conferiva allo stato neo-patrimoniale  delle caratteristiche proprie. 

Per cominciare, generò una politica che non era  basata su problemi o classi politiche particolari, ma ruotava intorno a delle personalità. Ad esempio, è difficile comprendere la politica dei partiti in Nigeria in termini di problemi o di classi sociali. 

Secondo, diede alle elezioni come pure alla competizione politica di qualsiasi genere, un’andamento particolare, perché in questo sistema, il vincitore prendeva tutto. E questo perché l’accesso al potere apriva ai dirigenti quello alle risorse pubbliche che, come descritto in precedenza, potevano essere sfruttate per consolidare il loro potere attraverso un ulteriore trasferimento ai loro sostenitori: «Avere il potere, significava  avere i mezzi per riprodurlo; perderlo, al contrario,  significava correre il rischio di non aver mai più i mezzi per riconquistarlo» (Allen 1995, p. 304). I conflitti politici, non ci si stupirà mai, si sono fatti sempre più violenti con il logoramento dei partiti d’opposizione, le elezioni truccate, i divieti e i bandi, le violenze fisiche, gli internamenti e gli assassinii. 

Al tempo stesso, i partiti al potere cercarono – e cercano ancora – di cooptare coloro i quali erano disposti ad esserlo (es. Rakner et al. 2004 per il Malawi). I regimi neo-patrimoniali hanno la tendenza ad avere un governo pletorico che si rinnova frequentemente (sia per  dare soddisfazione alle élite sia per impedire che possa  apparire un rivale del Presidente). N. Van de Walle ha riunito dei dati sulle dimensioni dei gabinetti governativi, passati da una media di 19,1 membri a 22,6 tra  il 1979 e il 1996 (Van de Walle 2001, pp. 103-106). Quando si pensa all’esiguità delle economie africane, queste cifre sembrano molto elevate. Si constata anche una correlazione positiva tra la dimensione del governo e la diversità etnica. L’opposizione, in compenso, ripiegò  sull’unica risorsa politica disponibile sotto il vecchio regime coloniale – lo sfruttamento dell’identità etnica, regionale o religiosa – per minacciare il nuovo stato. Ed è questa dinamica che ha dato talvolta alla politica africana un carattere «tribale». 

Il clientelismo, oltre a produrre instabilità politica, ha introdotto una tendenza all’instabilità economica legata alla corruzione. Distribuire dei posti ai clienti era un mezzo per assicurare o ricompensare la lealtà verso il partito o aiutare il suo gruppo di parenti allargato. Alla partenza, le ricompense assumevano la forma d’impieghi. I nuovi stati africani avevano indiscutibilmente bisogno di incrementare i servizi pubblici e le competenze mancavano. Ma il massiccio tasso di crescita  dei primi anni d’indipendenza si è anche nutrito della necessità di soddisfare le clientele, e le nomine che sono seguite non sono state fatte in base ai meriti. Gli impiegati statali sempre più numerosi, l’assenza di funzioni pubbliche basate sul merito e la necessità di conservare e di estendere il controllo sull’economia, ridussero la capacità dei paesi a reagire agli shock economici esterni: innalzamento del prezzo del petrolio, diminuzione del prezzo delle materie prime e aumento del debito. Il rallentamento della crescita negli anni ’70, ha portato alla crisi degli anni ’80. Con la diminuzione dei salari reali dei funzionari, le gratificazioni hanno cambiato  natura, spostandosi dagli impieghi alle possibilità di procacciarsi delle rendite. Il clientelismo ha dunque generato la corruzione (Allen 1995, p. 305).

Competizione politica e instabilità sociale

Alcuni hanno sostenuto che il clientelismo era un  «collante» sociale essenziale per assicurare la coesione  delle società africane. Per altri, sarebbe invece una  forma di redistribuzione dai ricchi ai poveri: ai loro  occhi, le società africane funzionavano bene, solo che in  modo diverso (Chabal e Daloz 1999). I costi materiali  e umani di questa forma di politica sono stati considerevoli. Per di più , la relazione tra protettore e cliente è  molto asimmetrica; i protettori possono farsi e disfarsi  dei clienti, ma non privarsene, e la ricchezza non si  diffonde tanto verso il basso. Benché il clientelismo e  la piccola corruzione imperversino in tutte le società  africane, Van de Walle insiste sull’eseguità delle élite che  ne beneficiano veramente: da qualche centinaia a un  migliaio di individui e le loro famiglie, con il Presidente  al vertice (Van de Walle 2001, pp. 123-125). 

Gli anni successivi all’indipendenza furono caratterizzati da un’intensa competizione politica e da un’instabilità effettiva o potenziale sempre maggiore,  alle quali i leader risposero in modi diversi. «La lotta  per il potere era così impegnativa, osserva il politologo Claude Ake, che tutto il resto, compreso lo sviluppo, fu messo in secondo piano» (Ake 1996, p. 116).

Solo gli africani possono sviluppare l’Africa

Ecco il dilemma fondamentale dei donatori: in presenza di solidi argomenti umanitari ed economici per distribuire l’aiuto, quest’ultimo ha finito per sostenere in Africa gli stati neo patrimoniali. Nella sua forma attuale, l’aiuto può servire a impedire delle trasformazioni politiche che, sotto l’egida di dirigenti risoluti, pronti a promuovere dei cambiamenti istituzionali, potrebbero condurre a dei livelli di crescita molto più rapidi. 

La questione politica cruciale diventa allora: esiste un modo di organizzare gli aiuti che, da un lato, sod disfi i bisogni a breve termine senza compromettere gli  obiettivi a lungo termine – cercare di promuovere degli  stati pro-sviluppo – e, dall’altra, procurare delle risorse  a una politica clientelare? 

I mezzi, mi sembra, esistano. Dovrebbero basarsi su due principi fondamentali: 

– per delle ragioni umanitarie e di semplice efficacia dell’aiuto, è sostenibile prevedere una specie di livello minimo d’assistenza a tutti i paesi, con un’allocazione che privilegi quelli più poveri; 

– sarebbe molto augurabile utilizzare (una parte del) l’aiuto per creare un sistema di incentivi chiari e  coerenti – basato più sulla carota che sul bastone – in grado di spingere i dirigenti a smetterla con le politiche clientelari per definire una via allo sviluppo. 

Queste innovazioni avrebbero tuttavia bisogno di trasformare la distribuzione dell’aiuto, fatto che implica cambiamenti considerevoli negli organismi  donatori presenti sul terreno e l’abbandono del condizionamento. 

Il primo elemento è un livello di base dell’aiuto a tutti i paesi d’Africa. Tenuto conto della relativa inefficacia degli sforzi di riforma del governo indotti dai  donatori in assenza di un impegno politico, non è molto giudizioso legare questo tipo d’aiuto a dei cambiamenti politici e istituzionali (a differenza dell’attuale sistema dei «paesi a basso reddito sotto stress», Low Incombe  Countries Under Stess). In compenso, sarebbe opportuno concentrare l’aiuto sulla fornitura di beni pubblici elementari, in particolare sulle infrastrutture e la sanità, per portare avanti la lotta contro l’AIDS e fornire dei  trattamenti anti-retrovirali. 

Investimenti per la crescita

Ciò sarebbe giustificato da ragioni umanitarie e dal fatto che l’aiuto, generalmente, nutre la crescita tramite investimenti a un certo livello, anche nei paesi  che possiedono delle istituzioni mediocri. Ci sono poi delle buone ragioni per mantenere riunite le funzioni dello stato centrale in maniera che, nel caso di sfide politiche a un ordine corrotto, ci sia qualcosa da conservare, riducendo così il rischio di una degenerazione sotto forma di «signori della guerra» regionali o etnici. Per la stessa ragione, si potrebbe sostenere un intervento militare diretto dei paesi donatori per impedire la diffusione dei conflitti e accrescere la capacità dell’Unione africana a farlo. Tenuto conto di una sua maggiore efficacia, sarebbe augurabile attribuire l’aiuto ai paesi  più poveri sulla base di una quantità fissa di dollari a  testa, in modo che, con la crescita del paese, il «livello minimo di base» diventi sempre meno importante.  Quest’ultimo dovrebbe essere fissato a un livello tale da scoraggiare i governi a mantenere un reddito pro capite troppo basso1. Visto che l’aiuto subordinato alla promozione di un cambiamento delle politiche è risultato relativamente inefficiente, l’aiuto minimo di base dovrebbe tenere i condizionamenti al minimo (per impedire una instabilità macroeconomica eccessiva) e bisognerebbe prendere le misure necessarie per assicurarsi che lo schema e l’applicazione di questi condizionamenti tragga benefici dagli errori passati (Mosley et  al. 2003). Le istituzioni donatrici potrebbero tuttavia essere coinvolte a fondo nella distribuzione, partendo dal principio che la capacità dello stato sarebbe molto bassa. Il coordinamento tra donatori dovrebbe dunque essere una priorità. 

A questo stadio, tuttavia, il dilemma ormai familiare dell’aiuto in un ambiente clientelare si pone in maniera molto drammatica. Come possono i donatori evitare di contribuire al mantenimento al potere di un Charles Taylor, un Abacha o un Mobutu (giocando un ruolo simile a quello delle risorse petrolifere e minerali)? Ecco perché un sistema d’aiuto all’Africa ha bisogno di incorporare un forte elemento incentivante diretto a sostenere la trasformazione politica. 

Bisognerebbe mettere a punto un secondo elemento, concepito esclusivamente per creare le condizioni favorevoli all’emergere di regimi pro-sviluppo, fornendo loro le risorse necessarie per le infrastrutture e per attrarre gli investimenti. Questo elemento, anziché prevedere dei condizionamenti, dovrebbe contenere una semplice regola di allocazione e un rapido e progressivo ritiro delle istituzioni dei donatori dal micro-management

La chiave di un tale sistema sarebbe una regola di allocazione di un aiuto a dosi sufficientemente forti per creare un incentivo attraente. Per evitare i noti  problemi della micro-gestione in cui i donatori sono coinvolti, dovrebbero essere attribuite ai paesi delle risorse oltre il «livello minimo», in base a un piccolo numero di indicatori dei risultati dello sviluppo. Per non penalizzare i più poveri, dovrebbe trattarsi di indicatori proporzionali o legati al tasso di cambiamento. Se la lotta contro la povertà è l’obiettivo numero uno dei donatori, il primo indicatore dovrebbe essere la riduzione del numero dei poveri, Tra gli altri indicatori, potrebbero figurare delle voci relative ai risultati degli stati pro-sviluppo, in particolare la crescita economica, l’investimento nell’industria manifatturiera o dei servizi in proporzione al PIL o ai progressi registrati, ad esempio, nella diversificazione delle esportazioni. Tutti i donatori dovrebbero accordarsi sulla stessa batteria, semplice o ristretta, di criteri. Il desiderio di ampliarla sarà molto forte, perché i donatori cercheranno quasi  sempre di perseguire degli obiettivi multipli di aiuto (spesso incoraggiati dalle ONG). Però, questo sistema funzionerà solo se resterà focalizzato sul far emergere di regimi pro-sviluppo. 

La questione del debito

Nessun programma responsabile di assistenza allo sviluppo in Africa può permettersi di ignorare il problema del debito. Anche la sua riduzione dovrebbe  essere prevista dal programma. 

Ci sono due grandi ragioni di riduzioni del debito. La prima è fondamentalmente umanitaria: il servizio del debito in Africa impoverisce le casse pubbliche.  Se la solvibilità commerciale non è un problema pratico, non ha nessun senso vedere l’aiuto apportato a un paese tornare indietro sotto forma di servizio al debito. L’altra ragione della riduzione è economica: il super indebitamento di un determinato paese può dissuadere i potenziali investitori. In Africa, tuttavia, i  problemi dell’indebitamento cronico sono strettamente legati alla dipendenza dalle materie prime e nessuna  durevole riduzione del debito è concepibile senza una  diversificazione delle esportazioni. 

Per i paesi che non presentano segni di uno stato pro-sviluppo, esistono delle ragioni umanitarie per congelare o, almeno, ridurre il servizio al debito, così  come è stato congelato il pagamento degli stessi per quei paesi vittime di catastrofi naturali (ad esempio, i paesi  dell’America centrale dopo l’uragano Mitch nel 1998 e lo Sri Lanka e l’Indonesia dopo lo tsunami). 

Quando esistono dei segnali secondo i quali i leader possono seriamente venire a capo del clientelismo e mettere in piedi un progetto di sviluppo che passi attraverso la diversificazione e attiri gli investitori, è importante assicurarsi una generosa riduzione dell’importo del debito, in modo da non frenare l’investimento e la crescita. 

Sebbene queste misure di congelamento del servizio al debito e di riduzione del suo importo debbano andare di pari passo all’aiuto minimo di base e al meccanismo di aiuto incentivante, le risorse per la riduzione del debito dovrebbero considerarsi aggiuntive rispetto al budget degli aiuti. Ma ciò dipenderà dalla volontà politica e dalle pressioni dei militanti nei paesi creditori.

Riferimenti bibliografici

Adams R. (2004), Hard to Credit – Review of IOU: «The  Debt Threat and Why We Must Deluse It» by N. Hertz,  in «The Guardian», 30 octobre. 

Akle Cl. (1996), Democracy and Development in Africa,  Washington, Brookings Institution. 

Allen C. (1995), Understanding African Policies, in «Review  of African Political Economy», 65. 

Chabal P. e Daloz J.P. (1999), Afrika Works: Disorder as  Political Instrument, London, Zed Press. 

Mandani M. (1996), Citizen and Subject: Contemporary  Africa and the Legacy of Late Colonialism, Princeton,  Princeton University Press. 

Mosley P. et al. (2003), Compliance with World Bank con ditionality; implications for the selectivity approach to  policy-based lending and the design of conditionality,  CREDIT Working Paper 03/20, University of Nottin gham [online: http://www.nottingham.ac.uk/economi cs/credit/research/papers/CP.03.20.pdf]. 

Rakner L. et al. (2004), The budget as theatre – the formal  and informal makings of the budget process in Malawi,  Draft Final Report to DfID Malawi. 

Ranger T. (1966), The invention of tradition in colonial  Africa, in E. Hobsbawn e T. Ranger (eds.), The Invention  of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press. Van de Walle N. (2001), African Economies and the Politics  of Permanent Crisis, 1979-1999, Cambridge, Cambridge  University Press.


Fonte/Testo originale: Matthew Lockwood ‘L’Africa degli stati deboli’ – pubblicato su Equilibri, Fascicolo 1, aprile 2006, Il Mulino.

Note

  1. Questo elemento porterebbe a delle modifiche nell’assegnazione degli  aiuti verso i paesi più grandi.
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