La crescita economica registrata negli ultimi decenni in molti Paesi è sostenuta dallo sviluppo di mercati sempre più efficienti, raffinati e interconnessi. L’incremento del reddito disponibile ha generato grandi volumi di risparmio, che, riversati nel sistema finanziario hanno indirettamente spinto l’innovazione.
Tra luci e ombre i mercati dei capitali hanno distribuito credito a grandi gruppi industriali, piccole e medie imprese in crescita mentre premiavano gli investitori grandi come le banche e piccoli come i risparmiatori. Una regola aurea ha descritto questo meccanismo di distribuzione: maggiore il rischio sostenuto, tendenzialmente maggiore il premio o la perdita. Questo premio ha preso due forme in circa un secolo di storia: la crescita di valore dell’azione e i dividendi, chiamati anche cedole.
In un sistema tecnologico in costante cambiamento, anche il meccanismo di trasmissione dei guadagni finanziari è sostanzialmente cambiato. Da una parte il valore delle quote aziendali costituisce il volano essenziale di guadagno per gli investitori più dinamici. Dall’altra i dividendi hanno garantito dei benefici cumulati altissimi per gli investitori più pazienti. La differenza tra i due canali consiste nella certezza del guadagno, riducendo il rischio di perdite. Il valore dei titoli dipende, in primo luogo, da come il mercato in generale (investitori e analisti in particolare) vede l’azienda e quali rischi comporta investire in essa. Per questa ragione i premi Nobel Eugene Fama e Kenneth French difendono la capacità dei mercati finanziari di ‘dare un prezzo’ ai rischi. In secondo luogo il valore deriva da una scelta strategica del consiglio d’amministrazione dell’azienda, e consiste in liquidità proveniente dalle ‘tasche’ dell’azienda stessa. Questo implica che le aziende che usano i dividendi sacrificano risorse disponibili, per garantire un guadagno agli investitori.
Questo sistema di distribuzione dei proventi è mutato a seguito dell’avvento della società post-industriale1. La crescita dell’economia dei servizi iniziata oltre cinquant’anni fa ha avviato la de-materializzazione delle attività, modificando la struttura dei mercati finanziari e favorendo modelli di business meno ‘liquidi’ delle ere passate. Ciò ha contribuito a una crescente preferenza degli investitori per il valore di mercato delle azioni a scapito dei dividendi.
Questa dinamica è diventata dominante grazie al processo creativo-distruttivo del mercato, secondo il quale modelli di business e investimenti dinamici hanno fatto sì che il numero di aziende che rilasciasse dividendi fosse superato da quello delle aziende che sfruttavano la propria performance finanziaria per premiare gli investitori. Infatti alcuni autori hanno notato col tempo che il numero di aziende facente uso di cedole si è drasticamente ridotto dal ’29 a oggi2.
Le aziende hanno spesso preferito l’alternativa più comoda di ricomprare le quote degli azionisti (fenomeno chiamato anche buy-back). La differenza in termini strategici è che si riduce il numero di azionisti accrescendo il potere decisionale di chi rimane. Poiché l’azienda ricompra a valori maggiori di quelli di mercato, gli investitori vengono compensati dal rischio sostenuto. Tuttavia l’investitore deve rinunciare almeno a una parte delle sue quote per poter godere di tale guadagno, mentre tramite le cedole avrebbe potuto trattenere il titolo azionario. Ci sono varie ragioni per cui le aziende desidererebbero liberarsi di risorse finanziarie tramite le politiche dei dividendi o di buy-back: per esempio per ridurre gli sprechi di managers spendaccioni, per anticipare un aumento del rischio di perdita degli investitori oppure per compensarli a fronte di un andamento negativo del titolo di mercato.
Questa dinamica impedisce grandi volumi di investimento potenziale nella transizione ecologica che le grandi aziende potrebbero effettuare sfruttando semplicemente la liquidità considerata in eccesso3.
Il ciclo storico dei dividendi
Sebbene la quota di aziende che paga dividendi si sia ridotta, il volume dei dividendi in termini relativi all’economia americana, è in costante aumento dagli anni ’80 come si può notare dalla figura 1.
Con un’economia in costante crescita (nonostante la momentanea battuta d’arresto nel 2008 e poi nel 2020), gli Stati Uniti sono il mercato finanziario più grande del mondo. Dal 1929 al 2021 il volume dei dividendi si attesta attorno al 3.6% del Prodotto interno Lordo (PIL). Questo valore non è stato costante e si può notare come, successivamente alla crisi del ‘29, la dimensione relativa dei dividendi si sia ridotta.
La ragione è da ritrovarsi nella differenza tra il tasso di crescita economica e quello dei dividendi: fino agli anni ‘80 l’economia reale statunitense è cresciuta più rapidamente del totale dei dividendi rilasciati agli azionisti. Successivamente il numero di aziende che emettevano dividendi si è appunto ridotto, ma il tasso di crescita dei dividendi totali negli USA ha superato il tasso di crescita dell’economia. Intuitivamente, questo implica che un numero ristretto di imprese genera la maggioranza dei dividendi. In altre parole, questo gruppo di aziende preferisce compensare i propri investitori tramite la distribuzione di una liquidità in eccesso piuttosto che tramite l’incremento di valore del prezzo delle azioni che rispecchiano le aspettative degli analisti.
I grandi inquinatori americani sembrano aderire a questa descrizione, distribuendo agli azionisti proporzioni più ampie dei propri profitti in forma di dividendi rispetto alle altre compagnie quotate4. Questo trend ha portato a far crescere nel corso di circa un secolo la percentuale dei dividendi USA da un valore che si aggirava attorno ai 2.5 punti di PIL l’anno tra il ’45 e il ’85 fino a valori due volte superiori la media secolare.
Ruolo dei grandi inquinatori e giustizia distributiva
Dai dati disponibili è possibile isolare con precisione i settori dai quali proviene il grande volume di dividendi dal 1987 in poi. Usando i dati della Federal Reserve Economic Data, è possibile separare i settori finanziari dai non-finanziari e capire quali siano quelli più generosi in termini di dividendi. Tra i non finanziari, vi sono settori rilevanti per le politiche ambientali per la loro impronta carbonica come le Compagnie Elettriche (Utilities), Agricoltura, Manifattura, Trasporti, Costruzioni, Miniere e Idrocarburi. Alcuni di questi settori sono attualmente regolati dalla politica ambientale in Europa e in altre parti del mondo o in procinto di essere regolamentati.
In particolare, l’Unione Europea (UE) ha adottato nel 2005 l’Emission Trading System (ETS) per le industrie energivore della manifattura, le compagnie nel settore energia e quelle del trasporto aereo. È stata programmata l’estensione a trasporti su terra, mare ed edifici e in alcuni Stati europei si discute la riduzione delle emissioni provenienti dal settore agricolo. Quindi le esternalità prodotte dalle grandi aziende europee (di cui alcune quotate in borsa) sono internalizzate tramite un meccanismo ad aste di permessi. Ciò determina un prezzo di mercato per le emissioni inquinanti che permette di far pagare alle aziende inquinanti di alcuni settori un compenso per le proprie emissioni. Non essendo una tassa, le aziende che riescono a decarbonizzare le proprie attività godono di un vantaggio competitivo dalla vendita dei permessi in eccesso. Negli USA, invece, tuttora non esiste un sistema di compensazione federale, ma solo uno statale in California e in alcuni stati della costa orientale5.
Una possibile ragione che porta gli USA a non riuscire ad instaurare un meccanismo federale è imputabile al timore che le imprese regolamentate fuggano verso zone non soggette a politiche climatiche simili. Nella UE, questo fenomeno, chiamato in inglese carbon leakage (fuga di carbonio), è stato parzialmente tamponato tramite la concessione gratuita dei permessi ai settori più esposti al rischio di delocalizzazione6. Negli USA, invece, la paura della perdita di competitiva delle imprese americane è stata una delle principali ragioni per cui il presidente Trump rinunciò a ottemperare agli obbiettivi della conferenza di Parigi del 2017. Nonostante questi dubbi, i dividendi delle compagnie inquinanti sono di fatto duplicati in valore assoluto dal 2009 al 2017, come mostra la figura 2, indicando una liquidità in eccesso tra i vari settori7.
La prodigalità del mercato US ha implicazioni ambientali e distributive poiché le aziende che rinunciano alla liquidità in eccesso sono le stesse aziende che dovrebbero investire nella transizione energetica e non compensano in nessuna maniera le proprie emissioni. Se gli investimenti atti alla decarbonizzazione hanno origine nell’intervento federale tramite l’Inflation Reduction Act, vuol dire che queste aziende ricevono sostegno dal contribuente americano, mentre gli azionisti ne guadagnano i frutti.
In poche parole, si rischia di veder trasformata la transizione ecologica in un trasferimento della ricchezza a favore di pochi, con implicazioni ambientali incerte. Quindi, le aziende americane godrebbero di un vantaggio doppio rispetto alla concorrenza europea e cinese. Curiosamente, alcune tra queste sono le stesse aziende con la maggior responsabilità del cambiamento climatico8 e maggiore esposizione reputazionale agli occhi degli investitori9.
Conclusioni
Le emissioni di gas serra provenienti dagli Stati Uniti sono le più alte sul pianeta in proporzione alla dimensione della popolazione e rappresentavano il 13.5% del totale nel 2021. Sebbene sia stata raggiunta una riduzione del 18.13% rispetto ai valori del 2004, gli obbiettivi di neutralità climatica necessitano di stabilità politica ed economica: gli incentivi alla decarbonizzazione dovrebbero emergere tramite un meccanismo di mercato per generare un segnale robusto e consistente nel tempo.
Tuttavia, l’economia americana non possiede ad oggi un sistema di tassazione o compensazione delle emissioni a livello federale. A questa mancanza si deve aggiungere che negli USA, i dividendi delle aziende inquinanti rappresentano una cifra che supera l’ 1.7% del Pil nazionale. I dividendi delle aziende non finanziarie in totale compongono il 3.5% del Pil nel 2021. Aggiungendo le società finanziarie al computo, si superano i sei punti percentuali.
Come fatto notare nella figura 1, questo valore è il risultato di una tendenza in fase di consolidamento da oltre tre decenni. Alcuni cercano di dare un numero al volume di investimenti necessari al fine di decarbonizzare l’economia americana. Liebreich10 stima che il valore si aggiri attorno ai 300 miliardi di dollari fino al 2050; meno di un quinto dei 1700 miliardi di dividendi del 2022.
Nonostante i timori di perdita di competitività, le aziende americane possiedono tutte le risorse necessarie per affrontare le sfide di decarbonizzazione, compresa la tanto temuta compensazione delle proprie esternalità negative tramite una tassa o un sistema di mercato delle emissioni. Un tabù, quest’ultimo, che sarebbe auspicabile cadesse nell’economia statunitense per evitare che la transizione ecologica sia supportata principalmente dagli aiuti di stato e dunque pagata, in ultima analisi, dal contribuente.
La responsabilità dovrebbe essere inoltre condivisa dagli investitori istituzionali. Compito di questi ultimi dovrebbe essere quello di rinunciare ai dividendi e pretendere gli investimenti nella transizione ecologica. Eppure, giunti al bivio tra dividendi e transizione, gli investitori e le aziende americane sembrano aver preso la strada sbagliata.
Note
- D. Bell, The Coming of the Post-Industrial Society. The Educational Forum, 40(4), 1976, pp. 574–579. https://doi.org/10.1080/00131727609336501
- E. F. Fama e K. R. French, Disappearing dividends: changing firm characteristics or lower propensity to pay? In «Journal of Financial Economics», 2001, 60(1), 3–43. https://doi.org/10.1016/S0304-405X(01)00038-1; G. Hoberg e N. R. Prabhala, Disappearing Dividends, Catering, and Risk, in «Review of Financial Studies», 2009, 22(1), 79–116. https://doi.org/10.1093/rfs/hhn073
- E. F. Fama e K. R. French, Testing Trade-Off and Pecking Order Predictions about Dividends and Debt, in «The Review of Financial Studies», 15(1), pp. 1–33, 2002, http://www.jstor.org/stable/2696797; M. Harakeh, E. Lee e M. Walker, The effect of information shocks on dividend payout and dividend value relevance, in «International Review of Financial Analysis», 61, 2019, pp. 82–96. https://doi.org/10.1016/j.irfa.2018.10.009; J. B. Wong e M. M. Hasan, Oil shocks and corporate payouts. Energy Economics, 99, 2021, 105315. https://doi.org/10.1016/j.eneco.2021.105315
- M. Mazzarano, G. Guastella, S. Pareglio, A. Xepapadeas e S. Borghesi, Carbon Boards and Transition Risk: Explicit and Implicit exposure implications for Total Stock Returns and Dividend Payouts, Working Paper Fondazione Eni Enrico Mattei, 029.2021
- G. Galdi, S. F. Verde, S. Borghesi, J. Füssler, T. Jamieson, E. Wimberger e L. Zhou, Emissions trading systems with different price control mechanisms: implications for linking-Report for the Carbon Market Policy Dialogue, European University Institute. 2020
- A. Antoci, S. Borghesi, G. Iannucci, M. Sodini, Should I stay or should I go? Carbon leakage and ETS in an evolutionary model, in «Energy Economics», 103, 2021, 105561; S. F. Verde, G. Galdi, J. Füssler, T. Jamieson, M. Soini, E. Wimberger e L. Zhou, Emissions trading systems with different measures for carbon leakage prevention: implications for linking, European University Institute, 2021
- Codice tra parentesi: Trasporti (N3338C0A144NBEA), Compagnie Elettriche (N3310C0A144NBEA), Miniere e Idrocarburi (N3306C0A144NBEA), Agricoltura (N3303C0A144NBEA), Costruzioni (N3311C0A144NBEA), Manifattura (N3312C0A144NBEA), totale non-finanziari (NCBDPAA027N).
- P. Griffin e C. R. Heede, The carbon majors database, CDP Carbon Majors Report, 14, 2017; R. Heede, Tracing anthropogenic carbon dioxide and methane emissions to fossil fuel and cement producers, 1854-2010, in «Climatic Change», 122(1–2), 2014, pp.229–241. https://doi.org/10.1007/s10584-013-0986-y
- G. G Guastella, M. Mazzarano, S. Pareglio e A. Xepapadeas, Climate reputation risk and abnormal returns in the stock markets: A focus on large emitters in «International Review of Financial Analysis», 84, 2002, https://doi.org/10.1016/j.irfa.2022.102365
- M. Liebreich, Green New Deal-Trumpism with climate characteritics, BloombergNEF, 2019