Le società organizzate che finora hanno accompagnato il progredire dell’umanità si trovano a una frontiera cruciale. Dalla nostra attuale prospettiva spazio-temporale, di fronte alla questione ancora aperta dell’Antropocene, da decenni siamo chiamati a ripensare in modo radicale alle pratiche e alle strutture di pensiero, sociali, organizzative, produttive e giuridiche in relazione al mondo naturale.
Il relativamente breve periodo storico nella storia dell’homo sapiens, che va dalla teoria della relatività generale alla fisica dell’atomo, al volo a motore e alla computazione automatica ci ha consegnato un mondo naturale conoscibile e navigabile dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande in modalità misurabili e in apparenza sicure. Grazie a una conoscenza che ordina e gestisce cosmo e pianeta attraverso modelli fisici e matematici, l’homo sapiens è transitato dal desiderio di sottrarre la sua volontà al controllo di forze esogene e di ordinare la realtà, alla certezza di poter esprimere questa volontà e di essere libero di perseguirla in teorie e in pratiche, che spinte fino alla loro massima espressione, hanno la capacità di un totale annientamento della civiltà di sapiens, capacità, che dalla metà degli anni Quaranta fino ai recenti conflitti bellici, spesso viene presentata come plausibile nella corrente scena geopolitica.
Il Ventunesimo secolo, grazie alle grandi connessioni, alla potenza bellica globale e alle infinite sorgenti e rielaborazione di informazione accessibili con la scansione dell’unicità dei nostri attributi somatici, si apre oggi a un futuro dove la nostra forma di creatività più avanzata è arrivata a generare una forma di intelligenza abiotica indeperibile, immutabile e potenzialmente perennemente autonoma. L’intelligenza artificiale è progressivamente sempre più parte della nostra prospettiva del reale, al punto estremo che, anche qui e ora, chi è scrivente o leggente non necessariamente è dotato di intelligenza biologica.
È evidente che come civiltà di sapiens ciò che saremo in grado di elaborare e di produrre sarà sempre più determinato da entità che stanno oltre la volontà e le capacità degli esseri senzienti. Siamo forse alla soglia di una versione di quella realtà, già immaginata da tanta fantascienza, in cui entità artefatte e abiotiche sono coscientemente, autonomamente e volontariamente in grado di conoscere, ordinare e determinare il mondo e l’esistenza di natura. Se le società, da quelle preistoriche alle antiche, fino a quelle moderne, hanno avuto un variegato pantheon di entità ultra-umane per le ragioni, le cause e le manifestazioni di ciò che risultava inconoscibile e subito dall’umanità, si sta ora configurando un transfer di autorità verso enti in grado di conoscere meglio di quanto l’umanità post-moderna abbia saputo e potuto elaborare.
Sebbene agite, le società umane, in tempi e geografie diverse, non hanno però rinunciato a provare a dare senso a queste entità mappandone natura, azioni e caratteri, spesso delineando i margini di inconoscibilità ed enfatizzandone le tensioni, le preoccupazioni e le paure a essi associate. Intorno a quelle entità, divinità e ipotesi scientifiche da dimostrare, e alle problematiche relazioni che emanano dalle entità stesse, si sono ideate mappe del mondo, in testi e repertori visivi, in epoche e geografie diverse. Come riorientarci e mappare ora natura e realtà tenendo in considerazione queste entità senzienti, agenti e di fatto altrimenti vive?
Un approccio per rispondere a questo genere di questioni può originarsi osservando come storicamente le società umane hanno da sempre cercato, in modi diversi ma antropologicamente comparabili, di risolvere problemi attraverso la conoscenza e l’arte. La tensione di ascolto, relazione e reazione all’ambiente circostante è sempre stata con l’homo sapiens e con esso necessariamente da sempre convive, perché esiste dentro la natura e non fuori la natura. Mappare questa tensione tra noto e ignoto, nello spazio-ambiente dove le società fanno esperienza della natura, è quindi intrinsecamente parte della millenaria attività con cui le nostre società elaborano rappresentazioni del mondo naturale, sia delle sue manifestazioni sia del suo constante mutare, attraverso prodotti culturalmente rilevanti e trasmissibili.
Questo contributo, il primo della rubrica So.N.Ar. per «Equilibri Magazine», propone un caso di studio sintetico relativo a questa ancestrale attività di mappatura del mondo, prendendo in considerazione un noto manufatto di età antica, in cui archeologia e storia, ovvero quella parte del passato per cui sia hanno fonti scritte, insieme alla storia dell’arte ci offrono la possibilità di argomentare sul tema della mappatura e della comprensione del mondo naturale tenendo conto di forze che eccedono l’agentività umana. Tra le mappe conservatesi di quell’età di cui ci si potrebbe occupare, una risulta particolarmente significativa soprattutto in relazione al valore di universalità spazio-temporale che incarna.
La cosiddetta Mappa del Mondo neo-babilonese è una tavoletta d’argilla conservata presso il British Museum a Londra (BM 92687), che data circa al sesto secolo a.C., e conserva la più antica rappresentazione della concezione del mondo assiro a noi giunta e redatta con una commistione di testo e con immagini (figura 1).

Su un lato la tavoletta presenta un testo in accadico con caratteri cuneiformi accompagnato da una rappresentazione grafica schematica del mondo, mentre sull’altro lato presenta altre linee di testo. Per la natura del testo e per i suoi contenuti gli studiosi, che nei decenni l’hanno analizzata dopo il suo ingresso alla fine dell’Ottocento nelle collezioni del British Museum, sono concordi nel ritenere che nel suo complesso il testo sia databile al IX secolo a.C.Testo e immagini assieme restituiscono una descrizione della concezione del mondo e del cosmo di età assira, che rimanda a più antiche tradizioni testuali accadiche risalenti al secondo millennio a.C., e che accolgono riferimenti lessicali di più antica derivazione sumerica, con precisi riferimenti a racconti cosmogonici e a epopee come Enūma Eliš e Gilgamesh, o a epiche storiche come quella šar tamḫari dei Re della Battaglia.
Quella che viene presentata quindi non è tanto solo una resa descrittiva testuale del mondo reale e una rappresentazione grafica della sua topografica, ma una rappresentazione che mette assieme una concezione geofisica con una mitografica, una vera e propria cosmografia in cui convivono una visione geografica del mondo assieme a una visione storica e mitologica. La Mappa del Mondo neo-babilonese incarna non tanto la realtà osservabile, quanto il complesso di segni e nozioni che hanno permesso al suo estensore, e al suo gruppo sociale, di leggere e trasmettere la conoscenza del suo mondo assieme ai fattori ignoti che quel mondo avevano contribuito creare.

La parte grafica della mappa (figura 2) presenta due cerchi concentrici che delimitano una porzione circolare indicizzata con la parola accadica marratu, il ‘fiume amaro’, ovvero il ‘mare salato’, interpretabile come un grande oceano cosmico che tutto avvolge e separa. All’interno del cerchio con diametro inferiore viene presentato il continente delle terre emerse; all’esterno del cerchio con diametro maggiore, disposte radialmente, sono presentate delle porzioni di terre delimitate da figure triangolari descritte con il vocabolo nagû, ovvero regioni.
All’interno delle terre emerse a settentrione, che corrisponde al reale orientamento a nordovest (seguendo anche in questo caso l’antica pratica sumerica di orientamento nordovest-sudest degli edifici di culto), si trovano le montagne della catena del Tauro da dove si origina il fiume Eufrate. L’Eufrate si articola nella mappa come due linee parallele, le sue sponde, che scendono dalle montagne e attraversano la città di Babilonia, che è rappresentata come un grande rettangolo più o meno al centro della mappa. Da qui poi le linee proseguono verso meridione per terminare presso la città di Susa, dove il fiume sfocia in quelle che sono indicate come paludi. Queste sono poi collegate al Golfo Persico da un canale mostrato a ovest della città di Susa. La mappa indica all’interno del cerchio con il diametro minore, una generica organizzazione della Mesopotamia, con città situate a est dell’Eufrate e rappresentante da piccole circonferenze con relative didascalie, come Urartu, Assiria e Der, e quelle a ovest, come Bīt Habban e Bīt Yakin.
Quella della Mappa del Mondo neo-babilonese è quindi una visione che si incentra su Babilonia e sull’Eufrate, assi di una visione del mondo che ha questi come cardini della sua organizzazione spazio-temporale e della propria concezione di civiltà organizzata intorno alla gestione del fiume come risorsa da amministrare e allo stesso tempo agente esogeno che viene subìto in relazione agli andamenti climatici, donando e sottraendo risorse alle civiltà sulle cui sponde sono fiorite, prosperate e decadute. La centralità dell’Eufrate per la società assira è rimarcata in positivo dalla presenza delle ordinate sponde del fiume, che fanno eco all’ordine garantito dal rettangolo spaziale e amministrativo di Babilonia, e opere di canalizzazione associate al fiume, mentre è contestualmente sottolineata in negativo dall’assenza dell’altro grande fiume della regione, il Tigri, che viene completamente ignorato perché probabilmente troppo pericoloso e irruente per essere piegato ai fini della gestione del territorio incentrato su Babilonia.
La mappa mostra anche altri dettagli relativi alla considerazione che gli assiri mostravano per gli agenti esogeni, rispetto all’opera ordinatrice della loro civiltà. Se il loro mondo mesopotamico era ordinato dall’interazione tra società presenti in quel territorio e forze naturali agenti su quel territorio, espresse nel loro spazio-ambiente nell’azione del grande fiume, questo mondo veniva profondamente scosso da agenti climatici, inondazioni e siccità, impattanti sul territorio e sulle infrastrutture idriche legate all’Eufrate, determinate da forze esogene che interferivano dall’esterno sulle strutture di quel mondo.
Di queste forze agenti esogene la mappa da quindi conto riportando anche quei mondi al confine, i nagû, territori ignoti che stanno oltre il limite del grande fiume amaro, marratu, ma che essendo mappati sono potenzialmente considerati come agenti nella concezione del mondo assiro. Su di un lato della tavoletta d’argilla, la mappa ne conserva solo tre completamente rappresentati, un quarto è solo abbozzato. Il testo inciso dall’altro lato però ne descrive otto. Il termine utilizzato per descrivere questi territori non trova però riferimento all’uso fattone in epoca neo-assira, quella della redazione della tavoletta, essendo allora utilizzato per descrivere precise unità amministrative, e non queste aree distanti, indistinte e non-specificate, e quindi più simili ai territori descritti come distanti e ignoti del tardo periodo babilonese. Questi nella mappa sono chiaramente territori che stanno oltre.
La contemplazione dell’oltre di questi territori è quindi non solo ribadita in quanto oltre il limite del mondo conoscibile, misurabile, agibile delineato dalla banda circolare del grande fiume amaro, l’oceano, ma da un punto di vista lessicale è ribadita con il termine nagû che si carica di un valore temporale antico, e associato a una memoria profonda con un grande evento climatico del passato remoto e che trova espressione nell’uso che se ne fa nel grande poema epico che racconta di terre, nagû appunto, che emergono ai confini del ritirarsi del grande mare alla fine del grande diluvio primordiale narrato nell’epopea di Gilgamesh, la prima grande epica della civiltà dei sapiens.
Tali riferimenti testuali mitici che si riferiscono a questo grande evento climatico primordiale, espressione tra le più ancestrali e universali dell’agentività e dell’ingerenza delle forze della natura sulle società umane, che ritrova eco in molteplici istanze e tradizioni che vanno dai racconti di 7000 anni fa delle inondazioni degli aborigeni dell’Australia, al racconto di Noè e del diluvio universale dell’Antico Testamento, ai miti del diluvio delle prime nazioni dell’America del Nord come gli Anishinaabe, alla grande inondazione di Gun-Yu in Cina.
La tavoletta d’argilla del British Museum presenta un altro rimando a un mito incardinato nella coscienza collettiva dell’homo sapiens, parlante e scrivente, e a cui l’epopea di Gilgamesh fa riferimento. Alla decima riga del testo inciso dallo stesso lato della tavoletta in cui compare la mappa, viene riportato il nome di Utnapištim, il mitico eroe sumerico del terzo millennio delle cui vicende si da conto nel passaggio dell’epopea di Gilgamesh riportata ai versi 193-198 della nota Tavoletta undici del British Museum. A questo eroe mitico le divinità sumere accordano vita e dimora eterne in una terra lontana, in uno dei nagû appunto, oltre i limiti dello spazio e del tempo conoscibili, ina pî narati ovvero ‘alla sorgete dei fiumi’. Questa ricompensa meritata per salvato l’umanità dal grande diluvio mandato da Marduk, divinità centrale del pantheon sumero, per mezzo di una grande arca costruita su indicazione del Dio dell’acqua Enki, è espressione dell’eccezionalità di una grande impresa che ha garantito l’esistenza della specie nonostante la forza di eventi catastrofici determinanti da agenti ultra-umani che agiscono oltre a ciò che è noto, in quei nagû al di là della fascia difensiva di marratu.
La mappa del mondo neo-babilonese allora è un artefatto che ci racconta in modo esemplare del rapporto complesso tra società e natura letto attraverso l’arte, intesa come conoscenza e trasmissione di conoscenze. In una tavoletta d’argilla di circa 2500 anni fa ritroviamo le narrazione testuale e grafica risalente a una fonte di circa 3000 anni fa, con riferimenti a epiche che si tramandano da 4500 anni fa, e che raccontano del rapporto e delle tensioni profonde che la nostra specie ha da millenni con la natura.
È considerando e discutendo manufatti come la Mappa del Mondo neo-babilonese che possiamo quindi ragionevolmente partire per mappare la complessità del mondo presente. Contemplando con creatività nel nostro orizzonte ciò che si pone come lontano e ignoto, i nagû oltre il marratu del nostro tempo, si può arrivare a mappare il nostro mondo, perché in fondo conoscere è saper demarcare con tratto deciso i limiti dove la conoscenza si ferma, e sul quel confine costantemente rinegoziabile imparare a elaborare strategie per la gestione di ciò che non c’è dato, ancora, sapere. Nel nostro mappare il presente dovremmo allora guardare nel profondo, nell’oltre dell’odierno marratu, cinta che ci separa e definisce in relazione al sapiente artificiale, ricordandoci i nostri nuovi nagû sono parte integrante della nostra capacità di attingere a risorse ancora ignote per progettare il futuro e sopravvivere ai cambiamenti che verranno.
Questo primo contributo propone un primo tassello di una costellazione di tentativi aperti a queste prospettive e a domande come quella appena posta. Questo e i contributi che seguiranno propongono ipotesi prospettiche che ci permettano di articolare una collezione di risposte agli interrogativi che animeranno la rubrica, dal momento che questi richiederebbero capacità e spazi che eludono gli scopi di So.N.Ar., che vuole invece essere uno spazio per raccogliere riflessioni sul rapporto tra società, natura e arti offrendo un contributo culturale a un dibattito collettivo dove scienze e discipline umanistiche si possano incontrare, una opportunità di avvicinamento tra specialità che di rado hanno occasioni di osservarsi.
Per approfondire
W. Horowitz, The Babylonian Map of the World, in «Iraq», vol. 50, 1988, pp. 147-165.
B. Pongratz-Leisten, Empire as Cosmos, Cosmos as Empire, in Religion and Ideology in Assyria, De Gruyter Berlin-München-Boston, 2015, pp. 145-197, in particolare pp. 191-197.