La crisi ecologica è una frattura tra essere umano e cosmo

Intervista a Séverine Kodjo-Grandvaux: cosmologia come nuova filosofia, riparando il legame dell’umanità con il Cosmo.

Autore

Alessandra Manzini

Data

29 Maggio 2023

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DATA

29 Maggio 2023

ARGOMENTO

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Séverine Kodjo-Grandvaux, filosofa e giornalista per «Le Monde», è impegnata con gli Ateliers de la Pensée di Dakar (ADLP) fin dalla loro fondazione. La incontriamo a dieci anni dalla pubblicazione del suo primo libro: Philosophies africaines1 discutendo alcuni concetti salienti anche dell’ultima sua opera: Devenir vivant2, pubblicato nel 2021.

In quest’ultimo libro Séverine offre una prospettiva per interpretare l’origine della crisi della modernità occidentale. La filosofa sostiene che è proprio la concezione di ecologia fondata sulla separazione ontologica uomo-natura il nodo da sciogliere per uscire dalla crisi planetaria che la stessa modernità occidentale ha causato.

Séverine propone di ripartire dal Cosmo per riscoprire l’interdipendenza e l’appartenenza dell’uomo al Tout Vivant. Nel senso più vicino alle tradizioni gnoseologiche africane, gli esseri umani sono parte del tutto, immersi nella struttura connettiva del cosmo.

Ricorda la comune condizione cosmica: «Siamo figli delle stelle […], la nostra composizione chimica ha un gran numero di elementi in comune con tutti gli esseri viventi3». «Situare la questione ecologica sul piano cosmico – spiega – ci permette di vedere la crisi ecologica come crisi di risonanza, espressa nella rottura del legame tra l’essere umano e il cosmo. Rigenerare questo legame permetterebbe alla ‘civiltà’ occidentale di affrontare la sfida planetaria e tornare a prendersi cura del pianeta in comune». Questo gesto presuppone un cambiamento paradigmatico sostenuto da azioni di risveglio, ascolto, attenzione perché l’uomo torni a vibrare con il Tout Vivant. Severine porta alcuni esempi pratici di come realizzare questo cambiamento come la Fabrique de Suza terreno di sperimentazione degli ADLP.

Nell’intervista e nell’ultimo libro, Séverine Kodjo-Grandvaux delinea un percorso dove le narrazioni e le conoscenze delle culture non occidentali, le scienze fisiche, l’astrofisica e persino la microbiologia si incontrano per tracciare i contorni di una cultura condivisa, che presenta molteplici punti di ancoraggio per costruire un comune sapere in divenire, dove tutto vive e risuona. 

Qual è stata la domanda di ricerca principale che ha portato alla stesura di Philophies Africains, e perché i filosofi incontrati sono quasi tutti maschi?

Il mio primo libro ripercorre il dibattito filosofico degli anni Sessanta e Settanta, che si è posto il problema di cosa fosse e cosa dovesse essere la filosofia africana. Questo dibattito, portato avanti essenzialmente da uomini è sorto in seno al movimento della negritudine, che tendeva a cancellare le donne dalla propria storia. Solo recentemente si sta ricordando il ruolo essenziale delle sorelle Nardal4 nella fondazione del movimento e nel dibattito stesso. Dall’inizio degli anni Cinquanta fino agli anni Settanta la riproduzione del sapere filosofico era affidata quasi esclusivamente ai maschi. Un sistema patriarcale che non è stato per nulla messo in discussione e che permise solo agli uomini di fare carriera nelle università africane. Le donne esistevano nell’ambiente accademico, ma per ovvie ragioni economiche e di potere, riscontrabili anche in Europa, avevano meno accesso a posizioni di responsabilità e trovavano maggiori difficoltà a portare avanti le loro ricerche e soprattutto a pubblicare. Una filosofa come Tanella Boni è più conosciuta per i suoi romanzi e le sue poesie che per il suo lavoro filosofico. Negli anni Sessanta, le donne dovevano lottare per poter pubblicare e fare carriera tra i filosofi. Oggi sono più visibili nella ricerca e pubblicano di più, anche se le disparità rimangono, come in Europa. 

Prima di addentrarci nel tuo ultimo libro, vorrei chiederti che ruolo hanno avuto gli Ateliers de la Pensée nel passaggio dalla trattazione delle filosofie africane a questioni più metafisiche come il concetto di Tout Vivant?

Nel 2017 la seconda edizione degli Ateliers de la Pensée di Dakar (ADLP)5, ha affrontato il tema ‘Politique du vivant et condition planétaire’. Il dibattito e i molteplici spunti raccolti hanno nutrito la mia riflessione sul rapporto dell’umanità con il Tout Vivant. Quando ho iniziato a lavorare su questa questione, mi sono resa conto che campi di ricerca che a prima vista potevano sembrare molto distanti e non collegati tra loro, al contrario, avevano molto da offrire l’uno l’altro per migliorare la comprensione del mondo contemporaneo. Così sono arrivata a capire fino a che punto l’attuale crisi ecologica sia legata alla nostra storia coloniale e quanto abbia a che fare con ciò che Malcolm Ferdinand chiama l’«abitare coloniale»6. Un modo di abitare il mondo che intende dominare tutto ciò che è natura. In Europa, questi esseri viventi erano le donne, che si riteneva avessero conservato un legame organico con la natura e il cosmo, le streghe che venivano sistematicamente uccise e bruciate. Fuori dall’Europa, i popoli che abitavano le terre conquistate dai coloni europei erano considerati selvaggi da addomesticare e «civilizzare». Le popolazioni africane furono ridotte in schiavitù, ridotte a ‘ebano’ o a bestiame da sfruttare. Pertanto, in Occidente, riflettere sul nostro rapporto con la natura implica necessariamente una riflessione sul nostro rapporto con gli «Altri», con le popolazioni che l’Occidente ha colonizzato. Le questioni ecologiche e coloniali sono intimamente legate.

L’impegno pratico e territoriale degli Ateliers de la Pensée a Souza è molto interessante. Può parlarci di questa avventura urbana tutt’ora in corso? 

Quando vivevo in Camerun, ho conosciuto la direttrice della Gallerie MAM7, Maréme Malong, in una fattoria a Souza, a circa quaranta chilometri da Douala, dove pratica l’agricoltura biologica. Insieme abbiamo organizzato incontri letterari ai quali hanno partecipato anche Felwine Sarr e Achille Mbembe. Ben presto si è posto il problema di mettere in pratica, in modo molto concreto, le riflessioni sviluppate durante gli ADLP, che proponevano di rinnovare i paradigmi abitualmente utilizzati per pensare agli esseri viventi e rivalutare alcune competenze e conoscenze endogene africane. Abbiamo quindi ideato un luogo di sperimentazione: La Fabrique de Suza8, dove si svolgono le attività di ricerca del Laboratoire Économie du vivant, che coniuga attività artistiche e letterarie con residenze, masterclass e attività di orticoltura della fattoria. A gennaio 2023 è stato inaugurato il primo evento Biennale: Suza’s Manifest in collaborazione con il festival Agir pour le Vivant. Fin dall’inizio è stato importante aprire al dialogo e incoraggiare relazioni Sud-Sud, invitando ricercatori sudamericani come Diego Landivar, romanzieri e artisti come Simon Njami, Hervé Iamguenne, Bili Bidjocka, Hemley Boum per attingere alle esperienze dell’altrove. Attualmente sono attive due convenzioni con dottorati dell’Università di Doula e Yaounde.  Ricercatori esperti come Felwine Sarr, Parfait Akana e Nadine Machicou, lavorano con gli studenti a un progetto cartografico multidimensionale di Souza. L’obiettivo della ricerca è ottenere una conoscenza il più possibile dettagliata del territorio in cui ci troviamo, che permetta di trovare le migliori soluzioni possibili per migliorare il benessere delle popolazioni locali. 

In Devenir Vivant sono stata attratta da questa particolare frase: «la filosofia potrebbe tornare ad essere cosmologia». Potrebbe spiegarci questo passaggio? 

Molte cosmologie africane, sudamericane, amerindie, asiatiche e oceaniche condividono un diverso rapporto con il Cosmo, il che induce a comprendere che la separazione natura e cultura è una singolarità occidentale. La filosofa eco-femminista Carolyn Merchant9 mostra come, a partire dalla modernità, sia prevalso un progetto maschile che, dall’Europa, intendeva conquistare il mondo dominando tutto ciò che è natura e de-animando la materia. Il cosmo abitato dai popoli europei medievali fu devitalizzato e trasformato in un universo freddo governato dalle leggi matematiche, che la scienza avrebbe in seguito scoperto. La proposta che faccio in Devenir Vivant è quella di tornare ad una concezione completamente diversa della materia e dell’universo. Si tratta di riabitare il cosmo e di reinterrogare la dualità materia vivente/materia inerte chiedendosi cosa sia la vita (e quindi la morte). L’inerte non è necessariamente inanimato. Lo dicono alcune filosofie africane e amerindie, ma anche la fisica quantistica. Il nostro mondo è solido solo perché il cuore dell’atomo è in continuo movimento. Da qui la proposta di fare della cosmologia una nuova filosofia, reintegrando un cosmo che è un ecosistema generatore di vita. Tutto nell’universo ha permesso alla vita, come la conosciamo, di apparire su un pianeta, quello che abitiamo. Questo non significa che una conversione animista in Europa sia indispensabile, ma sarebbe interessante interrogare la storia dell’Europa per scoprire le sue radici animiste e scoprire che alcune pratiche non sono del tutto scomparse.

Pensando all’Europa, secondo lei come la filosofia potrebbe aiutare il continente a rigenerare le sue cosmo-filosofie, i suoi atteggiamenti e le sue pratiche?


Non credo che l’Africa salverà l’Europa, né che le cosmologie latinoamericane salveranno il mondo. Possono offrire soluzioni ai territori in cui esse emanano, ma non ovunque. Ciò che le cosmologie non occidentali evidenziano è che l’Occidente non è una soluzione, ma un problema. Per Occidente intendo ciò che l’Europa è diventata dal 1492: il sistema economico e politico che ha cannibalizzato il mondo intero. Questo sistema mondiale colonialista, capitalista e patriarcale deve essere decostruito dall’interno, a partire dal nostro territorio. Le soluzioni possono emergere sia da discussioni globali, che da esperienze fatte altrove, ma anche dal micro-locale, da territori che stanno sperimentando delle forme di resistenza. Ovunque, le persone lavorano per evitare di morire, anche in Francia. Questo è ciò che vediamo ad esempio nelle Zones à défendre (ZAD)10 delle Ardenne.

La storia dell’umanità, nonostante abbia attraversato momenti dolorosi è dopotutto storia di apertura, libertà ed emancipazione.

Note

  1. S. Kodjo-Grandvaux,  Philosophies africaines, Présence africaine, Parigi, 2013.
  2.  S. Kodjo-Grandvaux,  Devenir vivants, Philippe Rey, Parigi, 2021.
  3. Ibidem
  4.  Jane Nardal (1902 – 1993) è una scrittrice, filosofa, insegnante, saggista e politica francese della Martinica. Insieme a sua sorella Paulette Nardal, si ritiene che abbia gettato le basi teoriche e filosofiche della negritudine: un movimento culturale, politico e letterario emerso negli anni Trenta a Parigi e che cercava di riunire intellettuali neri provenienti da colonie antiche e contemporanee.
  5. Sito degli ADLP https://www.lesateliersdelapensee.org/.
  6.  M. Ferdinand. Une écologie décoloniale,  Edition de Seuil, Parigi, 2019.
  7. La Gallerie MAM con sede a Bonanjo in Camerun, sostiene la creazione artistica in tutto il continente africano da oltre venticinque anni. È un luogo di scoperta, apprendimento e appropriazione dedicato all’arte contemporanea. La Galleria MAM risponde a un impegno: «quello di un’Africa che pensa e agisce da sé e per sé».
  8. La Fabrique de Souza è uno degli spazi gestiti dalla Fondazione Mam.
  9. C. Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, Editrice Bibliografica, Milano 2022.
  10.  Le ‘zone da difendere’, sono forme di resistenza ambientalista a mega progetti statali che attivano diverse forme di protesta. Tra le ZAD si enumerano quelle nate contro la diga di Sivens e l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes. Entrambe le ZAD hanno portato all’abbandono del progetto da parte dello stato francese.
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