Tra i più suggestivi film in circolazione negli ultimi mesi ne spiccano tre che in varie sfumature sembrano suggerire una comune inquietudine di fronte alla catastrofe, umana e naturale. Li accomuna inoltre l’assenza di una qualunque ipotesi di redenzione.
Triangle of Sadness di Ruben Östlund, The Menu di Mark Mylod, e Bones and all di Luca Guadagnino portano in scena storie diverse ma che mostrano alcuni elementi di comunanza estetica e concettuale. Unanimemente, sono le tonalità tragiche e distopiche a prevalere, nonostante la diversità delle tonalità emotive dominanti.
Nel film di Östlund la lucidità sociologica oscilla tra realismo e surrealismo tragicomico, e il motivo su cui si regge un capitalismo divenuto forza astratta e mostruosa, staccata dalla natura materiale del mondo, appare come rinnovata e farsesca – ma non meno pericolosa – banalità del male.
In The Menu, Mylod mostra invece il carattere inquietante e disumano di un’arte o mestiere che la sacralizzazione dello spettacolo ha spinto verso il delirio di onnipotenza, facendo dell’ideologia della distinzione gastronomica una assoluta forma di settarismo rinvenibile nel culto della personalità di uno chef-guru che arriva a imporre un potere totalitario sulla nuda vita.
È invece l’estetica, a tratti onirica e a tratti gotica, a prevalere in Bones and all di Guadagnino, tratto dal romanzo della scrittrice e militante vegana Camille De Angelis, dove in un’America profonda e desolata degli anni Ottanta uomini consumano altri uomini. Qui la complicità umana e affettiva di una coppia di giovani devianti, accomunati da un patologico cannibalismo, divora la propria esistenza ai margini della società e della Storia, in preda a coazioni a ripetere, al contempo in fuga dalla violenza e tecnicamente ‘preda’ della stessa, inseguendo una riconciliazione con addosso i segni visibili delle tribolazioni.
Tre opere che si legano nell’indagare la dimensione antropologica della catastrofe, mostrando fisicamente le conseguenze dei guasti del mondo negli sguardi di melancolici protagonisti che suggeriscono l’assenza di un’idea di redenzione possibile. Tre varietà di un quadro disperante, tre modi di suggerire l’attraversamento della catastrofe che alla fine non mostrano quadri di resistenza o di alternativa possibili.
Lungo l’asse Östlund – Mylod, il tema che emerge con forza è la perdita di senso delle attività che più legano l’uomo alla natura: il lavoro e il cibo.
Sia sullo yacht di superricchi che all’interno del ristorante stellato che presto diviene universo concentrazionario, emergono personaggi che la società ha slegato dalla necessità materiale di cibarsi, lavorare, relazionarsi autenticamente. In Triangle of Sadness, sono immediatamente visibili le distorsioni psicologiche e sociali provocate da un processo di accumulazione del valore che si realizza attraverso il rapporto con merci fittizie come quelle digitali o finanziarie. Così, la ricchezza materiale degli individui sullo yacht appare direttamente proporzionale alla loro incapacità relazionale. Lo stesso principio è rinvenibile in The Menu, con la trasformazione mostruosa del cibo in artificio sensazionalistico, in cumulo di componenti organiche scientificamente selezionate. «Ingerirete… interi ecosistemi» chiosa lo chef-santone Slowik prima di concludere con una raccomandazione: «Non mangiate, il nostro menu è troppo prezioso».
Numerosi sono i rovesciamenti logici che si avvicendano nelle diverse scene. L’esordio di Triangle of Sadness mostra due protagonisti, una coppia di modelli, a una sfilata di moda. Lei, dominante, sulla passerella e lui ad assistere, in un campo dove viene sottolineato come il maschio sia economicamente – e quindi sentimentalmente – dominato. Qui si fa bella mostra, capovolgendone il significato, di parole prese a prestito dal femminismo e dell’ecologismo politico. «Ora siamo tutti uguali» e «Prima le donne» uniti al parodistico «Un nuovo clima sta entrando nel mondo…della moda» emergono in tutta la loro funzione decorativista, di superficie e di restaurazione culturale.
Il quadro della catastrofe umana, – cioè naturale e sociale insieme – del capitalismo contemporaneo è visibile in maniera chiara in Triangle of Sadness, denso di sottili ironie e disamine realistiche che legano l’elemento strutturale – le disuguaglianze materiali e simboliche su cui si regge il funzionamento dell’ordine sociale – con quello individuale – il distacco e il cinismo tipici di individui che la società stessa, gettandoli in una logica astratta e calcolante, ha reso disincantati e privi di personalità, inconsapevolmente partecipi della catastrofe, suggerendo come nella liberazione dal lavoro e dalla produzione di ‘valore reale’ si stia consumando l’intreccio tra progresso e regressione. Sullo yacht, l’assenza di un rapporto diretto e materiale con il funzionamento e la trasformazione del mondo si manifesta come oblio vizioso dei princìpi fondamentali su cui si regge la vita umana ‘sulla Terra’ (le risorse, il cibo, il lavoro). Ne consegue un’antropologica incapacità di attribuzione di senso a cose e uomini, mentre le relazioni si consumano tra anaffettività, opportunismo, dominio e spaesamento.
L’unico passaggio in cui irrompe la politica è in realtà uno scontro da tavolo, tanto erudito quanto giocoso e futile, tra un capitalista russo e un capitano americano e marxista, incuranti di trovarsi nel pieno di una tempesta che fa presagire alla fine. Ma più che mostrare il trionfo del relativismo, il dialogo mostra come la narrativa dominante sia tale perché capace di incorporare la sua negazione. Nel giustificare lo stato esistente di cose, l’oligarca Dimitrj non si impone solo rivendicando il suo potere reale di comprare l’intera nave, ma mostrando di conoscere bene, come il capitano, Lenin, autore ben più utile di tanti manuali di business school per comprendere il capitalismo.
Erudito, ricco di citazioni, quello tra il capitalista russo e il capitano marxista è un dibattito tanto reale quanto surreale, perché fuori da qualsiasi capacità di correggere la direzione della storia. Entrambi letteralmente annegano nell’alcol la loro lucidità nel pieno del naufragio.
Oltre a questo, diversi sono gli spunti rilevanti che emergono dalla proposta di Östlund. In un cesso che esplode – oltre al riferimento a La Grande Bouffe di Ferreri – viene proposta un’estetica della catastrofe che sottolinea la follia delle condotte anestetizzate e mostruose dei superricchi, il cui distacco da un rapporto diretto ed etico con il mondo materiale sembra venir punito violentemente durante la tempesta, assumendo le sembianze di un diluvio universale a rovescio, dove non c’è scampo, ma solo angoscia e sconfinata degradazione.
Non sarà però una calamità naturale a inaugurare la catastrofe. Ad azionare il detonatore sarà sempre la mano dell’uomo, nella quale una bomba può esplodere, d’un tratto, restituitagli dagli stessi che ha contribuito, per profitto, ad armare. Come l’economia, anche la violenza è circolare.
Allegoria di realtà parallela e impossibilità di vie di fuga, il tema dell’isola fa da sfondo anche a The Menu. Lì lo chef-guru Slowik accoglie i propri invitati nella più ambita e selettiva delle esperienze enogastronomiche che presto rivela una realtà di terribile fanatismo, spingendosi al limite del patto mefistofelico tra istinto omicida e sindrome suicidaria. La partecipazione a sette è sempre un intricato e paradossale bisogno che dietro il desiderio di rinascita nasconde pulsione di morte così come dietro la passione viscerale per un capo rivela la paura della libertà.
Così, il film pone con radicale sottigliezza psicologica interrogativi sulla figura degli chef-guru, sempre più osannati nelle società opulente, capaci di influenzare stili di vita e modi di essere proprio dove il cibo ha finito di essere questione del regno della necessità per diventare esperienza e senso.
Il preambolo a una realtà perversa fatta di dominio e umiliazione è ben introdotto da quell’iniziale «Vi prego, non mangiate» con cui si consuma ritualmente l’invito dello chef-guru ad assaggiare piatti estremamente sofisticati, presentati con spietata e inquietante freddezza. Una squadra di disciplinati lavoratori opera nelle cucine, con codici e mantra ripetuti fedelmente, come i seguaci delle più terribili sette new age. Anche sullo yacht di Östlund ci sono dei rituali motivazionali funzionali al ‘team building’ tra la crew, ma i toni non assumono caratteri così tetri.
Il processo di smaterializzazione si compie nel film di Mylod attorno al cibo che, dalla sua produzione al consumo, ha perso definitivamente la funzione di sfamare, di dare alimento e gioia alla vita, arrivando a distorcere la personalità di individui coinvolti tanto nella sua produzione che nel suo consumo. La sfera riproduttiva e di liberazione dal bisogno è talmente omessa da presentarsi nel suo rovescio mortifero e di sottomissione. Partecipare alla prestigiosissima ultima cena richiede, come si vedrà, volontà di sacrificio estreme.
Sulle due isole, se Östlund ci ricorda il lato della banalità del male, la storia di Mylod mette in luce elementi di misticismo violento e fanatico che credevamo relegati ai regimi totalitari.
Meno legata a critiche sistemiche o a toni di denuncia, Bones and all di Guadagnino propone una storia dove i profondi paesaggi dell’intimità, con i suoi sentimenti terribili, sono tutt’uno con quelli naturali dell’America profonda, là dove proprio l’isolamento e un feroce istinto di conservazione innescano più profondamente che altrove il bisogno di fuga. Due giovani erranti, in lotta con una patologia che li porta a consumare altri simili, attraversano paesaggi sublimi, in fuga da un passato fatto di violenza domestica, marginalità e abbandono.
Il film si sviluppa lungo i cicli di una antropofagica coazione a ripetere che sembra destinare i due amanti tanto al ruolo di esclusi nella società borghese, quanto a quello di facili prede dei simili-cannibali con cui a tratti s’illudono di trovare momenti di conforto e comunicazione autentica. Ma proprio nel momento in cui quell’esistenza precaria e nomade sembrava aver trovato un rifugio in grado di realizzare una vita fatta di pacificazione e quotidianità degli affetti, ecco che ritornano gli spettri del passato, a riaprire nuovamente una spirale di violenza inaspettata e fatale.
Diverse le storie, le tonalità emotive e i motivi alla radice dei guasti del mondo. Dallo yacht alla deriva del capitano Smith in Triangle of Sadness, all’isola del fanatico e violento chef-guru Slowik in The Menu, fino ai paesaggi dell’America profonda dove si consumano le passioni tristi e antropofagiche di Maren e Lee in Bones and all, questi tre preziosi film suggeriscono sullo sfondo un’idea e un’estetica della catastrofe che è insieme umana e sociale.
Che sia il naufragio di una nave-allegoria del capitalismo contemporaneo, lo sguardo di un sopravvissuto del ristorante stellato divenuto universo concentrazionario, o il desiderio famelico di consumare il proprio simile, l’immaginario che è uscito dal cinema negli ultimi mesi ha diagnosticato in maniera efficace le storture del mondo che possono condurre alla catastrofe ma non ha saputo indicare ipotesi possibili di redenzione. Perché non resti solo un piacevole spettacolo, sarà ancor più necessaria un’estetica in grado di suggerire una prassi per curare il mondo ed evitare la catastrofe.
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