In libreria
Entro in libreria e con leggero disappunto mi accorgo di essere assediato da una marea di romanzi. Si tratta in gran parte di ordinari romanzi contemporanei che lasciano il tempo che trovano. Pazienza, così va il mondo. Giro tra i banchi e gli scaffali diffidente per non venire ingannato dai troppi libri inutili, e da ‘letterato’ (termine avversato da Robert Musil ma pur sempre preferibile a ‘scrittore’) mi dico che forse la nostra è diventata l’epoca del ‘romanzo‘. Il romanzo – come ci spiega il grande studioso russo Michail Bachtin – non è infatti «semplicemente un genere letterario tra gli altri» bensì «l’unico genere letterario procreato e nutrito dall’epoca moderna». Tanto che a me pare si sia imposto sino a siglare l’epoca moderna quale collezione di racconti: una collezione di racconti scientemente finzionali.
Certo, in ogni libreria ci sono, magari in aree discoste e meno frequentate, anche le raccolte dove regna la ricerca, l’informazione, la saggistica, la teoria, addirittura la scienza. Nella mia, la migliore della città, libreria che non teme confronti internazionali, queste raccolte stanno ai piani superiori. Vi salgo, e mi accorgo che anche qui a legiferare sono infine autori, dunque soggetti, i cui nomi e racconti sono le chiavi di accesso imprescindibili per accostarsi alle cose, alle realtà trattate. Mi viene così da congetturare che, ovunque mi giri, sono comunque circondato da finzioni, rappresentazioni, narrazioni, insomma da ‘romanzi’, che vedo trascendere e dilagare oltre il loro convenzionale genere letterario per invadere anche i generi, i saperi disciplinari.
Mentre continuo a curiosare tra banchi e scaffali, so che le procedure finzionali sono differenti nelle sezioni fiction e non fiction, come in qualche libreria sbrigativa ci viene indicato importando le certezze editoriali di comodo della lingua inglese. È diversa la pretesa di referenzialità al mondo reale che guida, da una parte, un romanzo sociale newyorkese, uno argentino di realismo magico, uno parigino di matrice surrealista, uno memorialistico russo o uno psicologico italiano, e dall’altra parte la pretesa di referenzialità allo stesso mondo reale che guida un’indagine sociologica sulle nuove povertà, un’analisi politica delle nuove economie, una teoria cognitiva sul linguaggio ideale, una tesi filosofica sulla metaforologia, una ricerca storica sulle guerre di religione, la trattazione scientifica di una innovazione tecnologica o la disamina chimica della crisi ambientale… L’assalto alla realtà di queste milizie della scrittura viene condotto con armi, strategie e presunzione di realismo diverse. Mi dico però che il loro diverso scrivere, studiare, formulare, argomentare e comunicare non si può esaurire a semplice questione di generi letterari o disciplinari. Mi sembra che quei generi, per quanto diversi, siano come attraversati da un vento impertinente che li scompagina: il vento dei generi della credibilità.
Mi ripeto che la verosimiglianza di un romanzo comunemente inteso si distingue dalla veridicità di un saggio critico, dalla spiegazione di uno studio storico, da una dimostrazione scientifica, e via dicendo. Esperienza ed esperimento non sono assimilabili; simulazione letteraria e simulazione scientifica rappresentano distinte verità; l’esemplarità di un racconto è diversa da una esemplificazione tecnologica; una testimonianza storica è diversa da una teoria filosofica e questa lo è da una teoria della fisica, della genetica o della chimica. Tali distinzioni ricordano quanto siano molteplici i protocolli con cui le idee si formano, manifestano e fondano la loro verità. Tuttavia, tornando verso le casse della libreria con i miei magri acquisti, non mi abbandona il sospetto che le molteplici realtà prese d’assalto da tutti quei testi che mi sto lasciando alle spalle, testi di generi anche molto divergenti, siano comunque, in qualche modo che mi sfugge, tutte realtà ancelle di finzioni, ossia delle scritture (comprese le formule), delle narrazioni (comprese le immagini), delle rappresentazioni (comprese le teorie) che le nominano.
La libreria mi appare e allarma come se fosse la vetrina – volendo parafrasare un celebre libro del filosofo Arthur Schopenhauer – di un «mondo come realtà e finzione».
Tra le finzioni
Mentre esco dalla libreria, già li sento i molti autori e testi che ho lasciato su banchi e mensole delle conoscenze disciplinari, teoriche, filosofiche, scientifiche: mi stanno rimproverando per queste annotazioni in cui ho radunato alla leggera termini e concetti come Rappresentazione, Scrittura, Teoria, Narrazione, Finzione… sino a trascinarli nell’idea scanzonata che vivremmo nell’«epoca del romanzo». Enunciare sentenze epocali, sebbene metaforiche, è da stolti, come anche qualche stolto letterato riconosce. Ma alcuni tra quegli autori e testi che mi rimproverano li ho letti, e in precedenti visite in libreria anche comperati. Prendendomi con leggerezza letteraria un bel po’ di libertà, rispondo dunque che questo breve racconto, colpe comprese, deve molto proprio a loro.
Penso in particolare a varie riflessioni teoriche sul finzionalismo sviluppate tra gli altri da vari filosofi tedeschi tra Otto e Novecento puntigliosi sino all’eccesso; penso alle filosofie del linguaggio prolificate soprattutto tra Inghilterra e Stati Uniti lungo l’ultimo secolo e che ho provato a capire almeno nelle conclusioni, spesso di logica troppo complicata per le mie facoltà; penso anche ad alcuni intelligenti studi storici che si interrogano sui principi di «vero, falso, finto» – come recita il sottotitolo di un bel libro dello storico Carlo Ginzburg… E temo siano state queste letture, più di quelle letterarie, artistiche, poetiche, a suggerirmi che il travolgente sviluppo nella modernità dei momenti e dei mezzi conoscitivi e di comunicazione abbia portato sempre più a un mondo consapevolmente assoggettato alle «finzioni» con cui lo interpretiamo e agiamo, un mondo dove fatti e fenomeni e realtà si producono ed esprimono in sincronia simbiotica con le loro rappresentazioni, chiudendo ogni fenditura che consenta alla realtà di parlare anche attraverso il non detto.
Le finzioni intese quali linguaggi, quali racconti delle nostre invenzioni, intenzioni e azioni, sono in tal senso artifici tutt’altro che falsi o posticci: sono piuttosto – per dirla con le parole del filosofo Odo Marquard – «un momento determinante della definizione di realtà». Le finzioni quali mezzi ineludibili per definire la realtà, il mondo? Viene da dar ragione a Vladimir Nobokov quando, dietro suggerimento di Don Chisciotte, dice che «senza le fiabe il mondo non sarebbe reale».