Fuggire dal clima: la crisi delle migrazioni

Il cambiamento climatico obbliga da sempre le persone a lasciare le proprie terre ma, nonostante questo, la figura dei migranti ambientali presenta ancora molte zone d’ombra.

House Floating On Water

Autore

Cristina El Khoury

Data

27 Agosto 2024

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5' di lettura

DATA

27 Agosto 2024

ARGOMENTO

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Anno 2050. Punto di non ritorno. Mombasa, la seconda città più grande del Kenya, è disabitata. Il cambiamento climatico che minacciava la città da anni ha avuto la meglio sul territorio e ha costretto l’intera popolazione a traferirsi altrove, alla ricerca di condizioni più favorevoli.

Qui, oggi, le temperature sono incredibilmente alte – si aggirano tra i 48° e i 50° C –, l’aria è irrespirabile a causa dell’inquinamento e tutto è coperto dall’acqua: la città costiera, vulnerabile all’aumento del livello del mare, ha subito gli effetti di maree e inondazioni. Fenomeni meteorologici estremi e cicloni tropicali non hanno risparmiato niente e le persone che vivevano lì sono migrate altrove.   

Eppure, tutto questo era prevedibile e forse anche evitabile

Anno 2023. Nairobi. In occasione della visita di Stato nella Repubblica del Kenya il Presidente Sergio Mattarella dichiara che: 

«La siccità crea in molte Regioni del mondo una crisi alimentare che spinge ulteriormente i fenomeni migratori. Vi sono zone in cui non è possibile più la sopravvivenza alimentare a causa della siccità, e questo spinge, comprensibilmente, flussi migratori. Quindi è un tema centrale, quello del mutamento climatico. […] I conflitti impediscono di affrontare uniti i gravi problemi che affliggono l’umanità, a partire dalla crisi climatica che determina fenomeni che colpiscono tutte le nazioni, generando situazioni di carestia e di migrazioni forzate».

Migrazioni forzate. Lasciare la propria terra sembra essere l’unica alternativa davanti ai fenomeni climatici e allo stress ambientale. La crisi climatica in atto è già un’emergenza planetaria e sebbene le migrazioni ambientali siano spesso rappresentate come un fenomeno nuovo o addirittura una tendenza del futuro, l’esodo ambientale è ormai in corso da innumerevoli anni. Desertificazione, siccità e assenza di sufficienti risorse sono sempre state tra le prime cause alla base dei movimenti umani. In aggiunta, le risorse naturali e le coltivazioni sono destinate a diventare sempre più scarse in molte aree del pianeta e nonostante le persone cerchino di adattarsi all’ambiente che cambia, spesso sono costrette a spostarsi dalle proprie terre che non offrono più condizioni di vita favorevoli. 

Si parla così di migranti ambientali.  

Chi sono i migranti ambientali?

Definire esattamente chi siano i ‘migranti ambientali’ pone non poche sfide. La questione più problematica deriva dalla necessità di avere una definizione comprensibile, che raccolga ampio consenso non solo tra gli Stati e i loro governi ma anche tra gli studiosi e i ricercatori e che garantisca una facile documentazione nonché quantificazione del fenomeno. 

Inoltre, non è solo la definizione a risultare difficile: il termine stesso è stato proposto in diverse alternative, con piccole ma significative sfumature. Per citarne alcune, si può ricordare ‘rifugiati ambientali’, ‘eco-vittime’, ‘eco-migranti’, ‘persone sfollate per motivi ambientali’ ed ‘emigranti costretti da motivi ambientali’.

I numerosi termini alternativi che si sono fatti spazio tanto nel mondo accademico quanto tra l’opinione pubblica, non sempre però hanno colto il fulcro della questione: la migrazione forzata. Alcuni di loro, infatti, non solo non suggeriscono per niente l’idea di emigrazione (come ‘eco-vittime’), ma anche non connotano nemmeno l’obbligo alla base dello spostamento.   

Con l’intento di elaborare una definizione quanto più inclusiva del concetto di ‘migranti ambientali’, nel 1985, Essam El-Hinnawi ricercatore presso lo United Nations Environment Programme (UNEP) – riferendosi a loro con il termine ‘rifugiati ambientali’ – li ha definiti come «persone che sono costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, in via temporanea o permanente, a causa di un grave sconvolgimento ambientale che ha messo in pericolo la loro esistenza e/o gravemente influito sulla qualità della vita1».

Negli anni poi sono state proposte numerose definizioni, anche più lunghe della precedente, che hanno cercato di fornire maggiore chiarezza al fine di garantire altresì una pronta ed efficace risposta politica e internazionale. Indipendentemente da come li si voglia indicare, queste persone sono a oggi un’ampia parte fra tutti gli altri rifugiati e migranti e il loro numero è destinato a salire inesorabilmente. 

Nessuna tutela internazionale 

Chi scappa dagli effetti del cambiamento climatico non gode, ad oggi, di nessuna forma di tutela specifica a livello internazionale. 

Le analisi2 fornite dall’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNCHR) evidenziano un aumento esponenziale del numero di persone costrette ad abbandonare le proprie terre a causa di disastri ambientali, aggravati dal riscaldamento globale: tuttavia, non esiste un regime di protezione specifico a livello internazionale. 

La Convenzione delle Nazioni Unite riconosce lo status di ‘rifugiati’ a tutti coloro che sono perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità o appartenenza a un particolare gruppo sociale, ma questo non trova applicazione nei confronti dei migranti ambientali, dal momento che non sono perseguitati per motivi politici o di altro tipo.  

Nonostante ciò, esistono diverse iniziative a livello nazionale e regionale che mirano a fornire qualche forma di protezione. Alcuni paesi, per esempio, hanno adottato politiche che consentono l’ammissione di migranti ambientali in base a criteri umanitari, altri invece hanno introdotto leggi che riconoscono il diritto di soggiorno temporaneo o permanente. 

Nel 2017 la Nuova Zelanda ha annunciato di voler creare un nuovo visto di soggiorno per i migranti ambientali provenienti dalle isole del Pacifico, che saranno costretti a migrare altrove a causa dell’aumento del livello del mare. In aggiunta, lo stesso paese ha un programma di ricollocazione di rifugiati che prevede la riassegnazione di alcuni posti riservati a coloro che provengono dalle isole del Pacifico.

Gli Stati Uniti invece ammettono i migranti ambientali sulla base del programma Temporary Protected Status (TPS) che, sebbene non sia espressamente designato per loro, permette di rimanere sul territorio americano per un certo periodo di tempo in seguito a disastri o calamità naturali. 

La questione dei migranti climatici è sicuramente complessa dal punto di vista legale in particolar modo poiché coinvolge molteplici fattori, tra cui le politiche ambientali, i diritti umani e la cooperazione internazionale. Nonostante i labili tentativi di alcuni stati, molte nazioni sono ancora riluttanti ad accettare i rifugiati climatici a causa della paura di un aumento dell’immigrazione. 

Tuttavia, il 7 gennaio 2020 un’importante pietra miliare è stata gettata, sperando che sia solo l’inizio di una cooperazione e di uno sviluppo globale di politiche atte a proteggere i diritti dei migranti climatici.

Nel caso Ioane Teitiota v. New Zealand, sorto nel 2013, in seguito alla richiesta – respinta – di Ioane Teitiota, cittadino della Repubblica di Kiribati (un’isola dell’Oceano Pacifico del Sud) di ricevere asilo in Nuova Zelanda, il Comitato dei Diritti Umani dell’ONU ha sancito il riconoscimento di due fondamentali principi di diritto internazionale: da un lato ha ammesso che il cambiamento climatico può ledere, con i suoi effetti, al diritto alla vita delle persone e dall’altro, per la prima volta in assoluto, ha stabilito che il rischio di subire tale violazione nel paese d’origine genera assoluto divieto di respingimento da parte di Stati terzi3

L’assenza di una definizione nonché di una protezione universale conducono inevitabilmente a un mancato monitoraggio internazionale che rende difficile stabilire il numero preciso di persone bisognose di tutela. È possibile comunque far affidamento a stime e previsioni di organizzazioni internazionali e organizzazioni non governative per cercare di comprendere, in minima parte, l’entità del fenomeno. Il Migration Data Portal4, tra il 2012 e il 2022 ha stimato in media all’anno 21,6 milioni di migranti ambientali e prevede che entro il 2050 potrebbero diventare 216 milioni. Sulla stessa linea di pensiero sembra essere anche l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) che stima un numero di 200 milioni di sfollati a causa del clima entro il 2050. 

Migrazione come forma di adattamento?

Quando si parla di cambiamento climatico spesso si sentono termini come ‘mitigazione’ e ‘adattamento’. Se la mitigazione si riferisce a tutte le attività finalizzate a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera, che sono la principale causa del riscaldamento globale, l’adattamento si rivolge invece alle attività che mirano a ridurre la vulnerabilità alle conseguenze del cambiamento climatico che si sono verificate o che sono inevitabili. 

Sorge dunque spontaneo domandarsi se la migrazione ambientale possa essere realmente considerata una forma di adattamento. Da un lato, quando le persone si trovano ad affrontare condizioni ambientali avverse, come disastri naturali, desertificazione o degradazione ambientale, possono scegliere di migrare in luoghi più sicuri e sostenibili per soddisfare i loro bisogni di vita, ma dall’altro spesso non hanno scelta e sono costretti a farlo.

Pertanto, la migrazione ambientale non dovrebbe essere considerata di per sé una forma di adattamento, almeno per tre diverse ragioni:

  • Può essere l’ultima risorsa: avviene come risposta ai cambiamenti o a eventi già avvenuti e irreversibili;
  • Può esacerbare vulnerabilità esistenti: la migrazione è un processo costoso, impegnativo e pieno di incertezze che potrebbe aumentare non solo le vulnerabilità di coloro che si spostano, ma anche e soprattutto di coloro che vengono lasciati indietro;
  • Può portare a problemi sociali: i paesi di destinazione potrebbero non essere pronti ad accogliere un gran numero di persone, soprattutto se queste si muovono in aree già sovraccariche o prive della capacità di sostenerle. 

Sebbene quindi la migrazione ambientale possa essere necessaria in alcuni casi, non dovrebbe essere considerata una soluzione a sé stante ai cambiamenti climatici. Al contrario, sarebbe più opportuno vederla come ultima risorsa disponibile quando tutte le altre strategie di adattamento sono fallite. 

Il fenomeno migratorio indotto dalla variazione del clima oltre ad essere ancora di difficile comprensione, pone il concreto rischio di conseguenze negative successive allo spostamento, tra cui la perdita di identità culturale, la marginalizzazione sociale, la povertà, la vulnerabilità alle violazioni dei diritti umani e la discriminazione.

Note

  1. E. El-Hinnawi, Environmental refugees, Nairobi, UN. Environment Programme, 1985.
  2. UNHCR, Global trends report: forced displacement in 2021, 2021.
  3. CCPR/C/127/D/2728/2016, Ioane Teitiota v. New Zealand, UN Human Rights Committee (HRC), 7 gennaio 2020.
  4. Migration Data Portal, 2022 https://www.migrationdataportal.org/themes/environmental_migration_and_statistics.
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