Adattarsi alla fine del mondo? La sfida di Tuvalu

Il governo di Tuvalu, il piccolo Stato insulare polinesiano minacciato dall’innalzamento del livello del mare, ha intrapreso tutte le misure necessarie affinché la sua sovranità resti intatta.

Autore

Nicola Manghi

Data

30 Ottobre 2023

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30 Ottobre 2023

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Tuvalu è un piccolo Stato insulare collocato nella parte occidentale della Polinesia. 12.000 abitanti e 26 chilometri quadrati di terra, è spesso menzionato tra i Paesi più piccoli del mondo. Una caratteristica singolare della sua conformazione geomorfologica rende il Paese un caso più dibattuto di quanto la sua taglia farebbe immaginare: composto da nove tra atolli e isole coralline – da nord a sud: Nanumea, Nanumanga, Niutao, Nui, Vaitupu, Funafuti, Nukufetau, Nukulaelae e Niulakita –, il suo territorio raggiunge un’elevazione massima di appena 4,5 metri, esponendolo così al rischio di essere sommerso dal livello crescente del mare.

L’innalzamento dei livelli del mare è uno degli effetti più minacciosi della crisi ecologica contemporanea. La causa principale è il riscaldamento globale dovuto all’effetto serra, il quale da un lato provoca la fusione dei ghiacciai e delle calotte glaciali, aumentando il volume dell’acqua negli oceani; dall’altro, riscaldando le acque, ne aumenta la massa. Il risultato è un innalzamento del livello medio dei mari che, nel giro di qualche decennio, rischia di rendere le isole di Tuvalu – così come le altre nazioni insulari ‘piatte’ e le zone costiere di tutto il mondo – inabitabili, erodendo le coste e provocando la salinizzazione del suolo, complicandone la coltivazione. 

I rischi a cui il riscaldamento globale esporrà Tuvalu sono molteplici: gli eventi climatici estremi saranno più frequenti, così come più frequente sarà il rischio di siccità, un’evenienza particolarmente pericolosa per un luogo come questo, dove l’intera disponibilità idrica dipende dalle precipitazioni. Ma la sommersione è uno scenario senza precedenti: se le cessioni territoriali e gli avvicendamenti nell’occupazione dei territori hanno segnato nascita e morte di innumerevoli Stati, nessuno di essi è mai scomparso fisicamente dalle cartine geografiche del pianeta. Il dramma umanitario di una popolazione costretta ad abbandonare le terre abitate da secoli è evidente; ma ciò non significa che sia facile immaginare le conseguenze politiche, giuridiche e istituzionali dell’innalzamento dei livelli del mare per un paese come Tuvalu. Nella loro complessità, esse aprono quesiti inediti. Che ne sarà della sovranità del paese? Tuvalu continuerà a essere uno stato? E i Tuvaluani diverranno apolidi, rifugiati climatici?

Tra realtà e rappresentazione

Nonostante le spiagge da cartolina e le lagune cristalline, Tuvalu è, statistiche alla mano, il Paese meno visitato del mondo: i turisti che cerchino quel genere di destinazione preferiscono fermarsi alle isole Figi, meta obbligata per chi voglia raggiungere Tuvalu. Piccolo e remoto, Tuvalu è evidentemente un Paese marginale anche nella geopolitica globale. Ma la particolare congiuntura in cui si trova, in maniera forse paradossale, finisce per accrescerne il capitale politico, portando il Paese a svolgere un ruolo di primo piano nei negoziati internazionali sul clima, cercando di sensibilizzare la comunità globale sulla necessità di azioni decisive per mitigare il cambiamento climatico.

La dimensione simbolica e mediatica gioca un ruolo decisivo nella lotta condotta da Tuvalu. Le visite di personalità internazionali all’arcipelago rappresentano per il Paese l’opportunità di guadagnare un palcoscenico globale, aumentando la propria esposizione e ottenendo visibilità. In questo modo, Tuvalu contribuisce ad arricchire l’immaginario iconografico globale legato alla crisi ecologica ben al di là della notorietà del Paese e della sua condizione. Per esempio, nel maggio 2019, António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, vi si recò in visita ufficiale. Di quella visita, è diventata iconica, finendo sulla copertina di TIME Magazine, un’immagine che ritrae Guterres, capo della diplomazia mondiale, immerso nell’acqua dell’oceano fino alle ginocchia. Nell’articolo associato alla fotografia, di Tuvalu non si faceva nemmeno menzione; e ben poche delle centinaia di migliaia di persone che l’hanno vista avranno potuto riconoscervi la laguna di Funafuti. Seppure in modo mediato, Tuvalu contribuiva così a illustrare le preoccupazioni globali attorno all’emergenza climatica, offrendo l’immagine paradigmatica di un topos contemporaneo, l’isola che affonda, e arricchisce così il panorama immaginario della crisi ecologica.

Il Governo tuvaluano non ha impiegato molto a riappropriarsi della tradizione iconografica inaugurata da Guterres. Nel novembre 2021, Simon Kofe, Ministro della Giustizia, delle Comunicazioni e degli Affari Esteri di Tuvalu, è intervenuto con un messaggio video alla COP 26, tenutasi a Glasgow. La registrazione è scenografica: da quello che sembra a tutti gli effetti un ufficio (dietro di lui le bandiere di Tuvalu e delle Nazioni Unite si stagliano su uno sfondo blu) enuncia con compostezza un messaggio di urgenza che dovrebbe interessare tutti: «Tuvalu sta affondando, ma lo stesso accade anche al resto del mondo». Mentre prosegue nel dettagliare la condizione del suo Paese, la telecamera inizia lentamente a zoomare all’indietro. «Non possiamo aspettare discorsi quando il mare sta salendo intorno a noi tutto il tempo», continua Kofe, mentre l’inquadratura si allarga e rivela che quello che sembrava un ufficio e in realtà è solo un pannello: Kofe è in piedi nell’oceano, con l’acqua che gli arriva alle ginocchia. Il messaggio è chiaro e potente: il tempo delle chiacchiere è finito – servono decisioni drastiche e repentine per fermare le emissioni di gas a effetto serra. 

Più di recente, in occasione della COP 27, Kofe è comparso nuovamente in una posa originale, rivolgendosi al mondo con un altro messaggio scenografico. Questa volta non parlava dalla laguna di Funafuti, bensì da una riproduzione digitale di Te Afualiku, uno degli isolotti che compongono l’atollo di Funafuti. Con toni enfatici, annuncia un piano ambizioso: trasformare Tuvalu nella «prima nazione digitale al mondo». Il significato pragmatico della proposta rimane confuso, ma la direzione in cui intende andare è chiara: se anche i Tuvaluani fossero costretti a emigrare, il Governo vuole attrezzarsi perché il Paese non perda la sua sovranità. È questo il senso del Tuvalu Future Now Project, che Kofe in quella sede annunciava: un progetto che alla advocacy internazionale intende associare lo sforzo diplomatico per mettere in salvo la sovranità del Paese dai mutamenti delle circostanze ecologiche. Per questo, parallelamente alle iniziative di lobbying a livello internazionale, il Paese ha iniziato a stringere accordi bilaterali con governi stranieri – per ora, quelli di Venezuela e della Federazione di Saint Kitts e Nevis –, che così s’impegnano a riconoscere la sovranità di Tuvalu anche nello scenario della sua sparizione fisica. 

Al di là della fattibilità specifica del progetto, si tratta di un’iniziativa che introduce un elemento di novità nella comunicazione pubblica e nella politica estera del Paese. Storicamente, Tuvalu ha legato la propria lotta politica allo slogan We are not sinking, we are fighting (‘Stiamo lottando, non stiamo affondando’). In altri termini: mitigazione, non adattamento. La proposta di Kofe, in questo senso, introduce un elemento di novità nella linea politica del Paese: lo scenario della scomparsa dell’arcipelago e le conseguenze politiche e giuridiche entrano nello spettro delle possibilità. Il Governo continuerà a far pressione a livello internazionale perché i Paesi industrializzati riducano le emissioni, ma nel frattempo vuole anche intraprendere azioni per assicurarsi che la sua sovranità rimanga intatta – sebbene in forme tutte da immaginare – anche in caso di una scomparsa fisica dell’arcipelago. Questo significherebbe mantenere la rendita garantita dalla vasta zona economica esclusiva che circonda il Paese (750.000 chilometri quadrati di acque oceaniche, che tramite la vendita di permessi di pesca fruttano al paese oltre la metà del suo prodotto interno lordo), così come dalla più bizzarra tra le forme di approvvigionamento pubblico del Paese: l’affitto del dominio internet nazionale ‘.tv’, che, particolarmente richiesto, garantisce al Paese entrate per oltre cinque milioni di dollari australiani ogni anno.  

Adattarsi alla fine del mondo?

Di migrazioni forzate legate ai cambiamenti climatici si discute ormai da decenni, ma al momento non esiste un quadro normativo internazionale che garantisca la protezione di persone che hanno dovuto lasciare il proprio paese a causa di catastrofi ecologiche. La Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati firmata a Ginevra nel 1951 (ed emendata nel 1967 per liberarla delle limitazioni geografiche e temporali presenti nel testo originale) non fa menzione della degradazione ecologica tra le cause di migrazione forzata valevoli di protezione internazionale e i tentativi di forzarne l’interpretazione per portare al riconoscimento di questa nuova condizione sono incerte. Al tempo stesso, è difficile immaginare che, di fronte a un fenomeno che si stima possa arrivare a colpire oltre un miliardo di persone entro la metà del secolo corrente, i Paesi del mondo possano accordarsi su una nuova convenzione ad hoc.

Come detto, le incognite sono egualmente grandi riguardo alla condizione della sovranità di Tuvalu. Il documento di riferimento per quanto riguarda il riconoscimento della sovranità degli stati è la Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati del 1933. Benché firmata solo da un numero limitato di Paesi, si ritiene essa abbia un valore consuetudinario. Secondo la lettera di questo documento, i requisiti perché un’entità politica sia riconosciuta come uno Stato sono quattro: una popolazione permanente, un territorio definito, un governo in grado di esercitare il controllo su tale territorio e la capacità di intrattenere relazioni con altri Stati. Gli studiosi di diritto internazionale che si sono occupati dell’argomento hanno sottolineato come il requisito che appare più in pericolo nel caso di Tuvalu sia quello che fa riferimento a una popolazione permanente, ma l’innalzamento dei livelli del mare mette in pericolo potenzialmente tutti e quattro i criteri. Ciò che importa sottolineare, tuttavia, è che l’evento della sparizione fisica di uno Stato è privo di precedenti, e minaccia di accadere in quello che è, a tutti gli effetti, un vuoto normativo. 

Ma l’incertezza è tale che, più che di un vuoto normativo, sembra appropriato parlare della fine di un’epoca. Isabelle Stengers ha proposto una formula efficace per inquadrare la situazione, scrivendo dell’«intrusione di Gaia»1: la storia naturale non è più esterna a quella politica, le dinamiche del funzionamento planetario – alterate dalle emissioni di gas a effetto serra – non sono più estranee alle faccende umane. I principi della sovranità territoriale non valgono più a descrivere la realtà politica, men che meno a prevedere ciò che la situazione inedita contemporanea comporterà per l’avvenire. Tuvalu, nella sottile e fragile traiettoria della sua vicenda politica presente e futura, si annuncia pioniere delle forme nuove della sovranità. Ma il caso di Tuvalu vale come monito per chi si occupa di riscaldamento globale. Fino a che punto sarà possibile distinguere tra mitigazione e adattamento? Nel contesto di un luogo che corre il rischio di essere fisicamente spazzato via dalla faccia del pianeta, diviene pertinente domandare: è possibile adattarsi alla fine del mondo?  

Note

  1. I. Stengers, Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosenberg & Sellier, Torino, 2021.
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