Gli effetti del cambiamento climatico sono ormai sotto gli occhi di tutti con conseguenze che divengono sempre più catastrofiche. I mutamenti climatici globali sono amplificati su scala territoriale dal fatto che l’umanità ha aggredito gli ecosistemi locali rendendoli più vulnerabili a condizioni limite. Le aree montane sono state spopolate eliminando quei baluardi di presenza umana storica che ne assicuravano la manutenzione. Le pianure e le coste sono state cementificate impedendo al suolo di assorbire le acque che da benefiche divengono distruttive. Scompare la capacità degli ecosistemi ambientali, naturali e culturali di offrire dei servizi, di poter sostenere la vita umana.
I mutamenti climatici si sono verificati sempre nel corso delle ere geologiche e anche della storia umana. Ma sono avvenuti gradualmente, permettendo così alle culture e alle specie di adattarsi. Invece, a seguito della prima rivoluzione industriale e soprattutto a partire dagli ultimi 70 anni, questi cambiamenti sono avvenuti rapidamente determinando ciò che comunemente si identifica come desertificazione ambientale e culturale. La desertificazione non è il deserto. Quest’ultimo costituisce un ecosistema straordinario, pieno di biodiversità, che si è creato nel corso di ere geologiche, dove la vita e le culture si sono adattate realizzando condizioni particolari e ricche di interesse. La desertificazione è invece un cambiamento che non genera adattamento e armonia ma degrado. È quindi una situazione di deterioramento e abbandono che può avvenire in qualsiasi ecosistema. Paradossalmente, quindi, anche il deserto può essere soggetto a desertificazione e questo avviene proprio quando quelle straordinarie soluzioni realizzate dalle genti locali per assicurare la sopravvivenza vengono abbandonate.
Ho vissuto anni nel deserto dell’Algeria e ho imparato le ingegnose tecniche per produrre l’acqua in questa situazione limite. Cosa succede quando un sistema idrico non viene più utilizzato? Sparisce completamente la vegetazione, non c’è più vita e nessuno capirà più che strutture oggi interpretate come misteriose steli e monoliti sono state invece opere funzionali e vitali.
I Tuareg, i cosiddetti uomini blu del Sahara, si sono adattati alle condizioni del deserto con delle soluzioni straordinarie di tutti i tipi: dai turbanti per evitare l’infiltrazione della sabbia, per riprendere il vapore respirato all’interno (tra l’altro anche i cammelli sono fatti così: hanno delle narici che riciclano l’ossigeno consumato, occhi a doppia palpebra ecc.) alle grotte dove si raccolgono preziose gocce di acqua distillate dalle pareti, alle giare cisterna che vengono sotterrate lungo le piste per avere una utile riserva in caso di necessità, fino a imponenti sistemi di canalizzazione sotterranea che permettono l’esistenza delle oasi. Queste conoscenze sono frutto della accurata osservazione della natura e della trasmissione attraverso le generazioni delle soluzioni positive. La salvaguardia e memorizzazione è affidata a una loro sacralizzazione così una tecnica non è mai solo utile, ma anche bella e carica di valori simbolici. L’osservazione dei condor, o degli avvoltoi permette, per esempio, di trovare i punti di acqua e di umidità sotterranea che gli uccelli individuano dall’alto e svelano con i loro ampi voli circolari. Il condor è anche simbolo delle anime, del volo sciamanico e gli antropologi hanno insistito su questi aspetti per spiegarne le rappresentazioni preistoriche e il simbolismo. Tuttavia, si riflette poco sul fatto che questi simboli, rappresentazioni e riproduzioni allegoriche in cerimonie e feste, sono parte di un sistema di conoscenze utili nella quotidianità. I Tuareg si travestono da falchi e avvoltoi in commemorazioni rituali. Ripetono scene e gesti che si ripropongono da migliaia di anni. Compiono cerimonie ma trasmettono il segreto della sopravvivenza. Questa è la grande forza della tradizione, la capacità di adattamento e perpetuazione delle soluzioni positive selezionate attraverso la verifica della comunità e la loro riproposizione attraverso concezioni condivise. Le culture preistoriche hanno già affrontato cambiamenti climatici e desertificazioni. Ci hanno lasciato traccia di queste loro esperienze nei graffiti che adornano a migliaia le rupi del deserto e in quelle creazioni straordinarie che sono le oasi.
Esiste oggi una disciplina molto interessante che si chiama biomimetica: si impara dalla natura, dalle piante e dagli animali e se ne copiano le soluzioni biologiche. Si fanno scoperte interessanti. Per esempio dai granchi sono stati trovati dei materiali straordinari, antisettici; dai ragni nuove e resistenti fibre tessili; dalle ali delle farfalle superfici dai colori cangianti; dalla corazza degli scarabei il modo di condensare le gocce di umidità; dalla locomozione degli animali come muoversi senza usare la ruota. Allo stesso modo della biomimetica, io mi occupo di ecomimetica, imparo dagli ecosistemi, naturali e culturali. Le pietre e le grandi rocce nel deserto esplodono, perché? Perché l’escursione termica tra il giorno e la notte crea del movimento nei materiali: l’umidità dovuta all’escursione termica notturna penetra la pietra, si condensa, diventa acqua e poi gela aumentando di volume e creando micro fratture. Durante il giorno la stessa acqua si riscalda e evapora. L’alternarsi del processo, apparentemente impercettibile, genera a un certo punto un evento catastrofico e la pietra collassa. Questo ci insegna che tutto respira, ogni cosa si muove. È una legge che può essere utile. Osserviamo un paesaggio di dune e rimaniamo sbalorditi dalle forme armoniose e perfettamente matematiche. A volte le nuvole nel cielo sono disposte nelle stesse forme delle dune sottostanti. Capiamo così che la geometria delle dune è dovuta al vento: sono le correnti eoliche che, agendo allo stesso modo sull’atmosfera e sul suolo, creano corrispondenze tra cielo e terra. L’assunto diventa una concezione cosmologica e filosofica ma è soprattutto la comprensione di una legge della natura, l’individuazione di quelle forze impalpabili e deboli da utilizzare in modo favorevole. Quando è imminente la minaccia del collasso, queste conoscenze fanno la differenza tra il crollo delle civiltà e la sopravvivenza delle comunità.
In tutti i deserti troviamo immagini di una grande fauna e di mandrie di buoi. Ci parlano di quando il Sahara, alla fine dell’ultima glaciazione, era verde e irrigato da grandi fiumi creati dallo scioglimento dei ghiacci. A partire dagli ultimi 8.000 anni, con alterne vicende locali, si è instaurato il deserto e il bue, animale intorno al quale si creava la comunità, è scomparso. La perdita di questi paradisi originari ha determinato la necessità di trovare nuove soluzioni e, con l’adattamento e la selezione delle pratiche positive, si è realizzata l’oasi.
L’oasi è una struttura antropogenica realizzata grazie alla tenacia e conoscenza delle genti del deserto. Basti pensare che la Palma da Dattero, la Phoenix dactylifera, caratteristica e indispensabile nelle oasi calde, è una pianta addomesticata dall’uomo e non esiste allo stato naturale così come la vediamo. Ogni pianta di palma nelle oasi del deserto è stata precisamente piantata e curata. Le foglie devono essere tagliate per creare la forma ad albero, altrimenti sarebbe un cespuglio. Anche i fiori devono essere artificialmente fecondati a mano, perché la pianta possa produrre frutti. Nello specifico, la palma fa parte ed è fondamentale all’architettura dell’oasi. Con la sua ombra protegge il suolo dai raggi del sole e permette la coltivazione sottostante. Si determina così l’agricoltura a tre livelli dell’oasi: la palma, gli alberi da frutto e gli ortaggi. L’oasi deve essere irrigata. In base alle condizioni geo morfologiche vengono utilizzati metodi differenti. Per iniziare, può essere sufficiente uno scavo, una depressione protetta da foglie di palma secche tutte intorno. Durante la notte in questa depressione si condensa nell’acqua. Poche gocce di umidità permettono una prima vegetazione, la palma la protegge e gli insetti che vengono attirati muoiono e, insieme alle foglie, trasformano la sabbia in humus. La simbiosi delle specie crea la fertilità, la vita: l’oasi. Questa è sempre frutto dalla coesistenza di più organismi e per perpetuarsi deve essere protetta. L’oasi è un simbolo di protezione e l’umanità, proteggendo la natura, protegge sé stessa. L’oasi è il palmeto ma anche il villaggio, tutto l’ambiente e soprattutto l’intera comunità.
Il montare delle dune viene appositamente stimolato per proteggere l’oasi. Si tratta di dune artificiali create utilizzando a proprio favore le forze della natura. Si mette prima della terra che blocca la sabbia trasportata continuamente dal vento. I grani trovano una superficie soffice, non rimbalzano sul terreno e si fermano. Quando la sabbia comincia ad accumularsi, vengono messe delle foglie secche e la sabbia continua ad aumentare, formando dune altissime. Ecco come funzionano le oasi con soluzioni naturali e intelligenti di uso delle forze della natura. In molti casi, l’acqua è prodotta in grande quantità grazie a tunnel sotterranei, chiamati qanat, foggarà, khettarà, kariz e in tanti altri modi secondo i posti e i paesi, che filtrano i microflussi e drenano le più magre tracce di umidità del deserto verso l’oasi. Riconosciamo l’esistenza dei tunnel dalle traiettorie di fori che, come una serie di pozzi, marcano in superficie lo sviluppo sotterraneo. Sono gli sbocchi in superficie dei condotti verticali del tunnel orizzontale. Necessari per le attività di scavo, costituiscono anche sistemi di areazione e captazione dell’umidità. In pratica, il suolo così lavorato si dota di cavità e diviene come una spugna che capta e convoglia l’acqua.
Elaborati sono i sistemi di distribuzione dell’acqua: siccome essa è di proprietà delle famiglie non si deve mischiare e quindi c’è un affascinante sistema di ponticelli, canalette, pozze e ripartitori. Si crea un variegato gioco di flussi e di umidità, bello a vedersi, ma soprattutto necessario. Tramite pietre forate vengono misurati i flussi d’acqua. È una specie di computer analogico. Con della creta si otturano i fori nella pietra. Così il passaggio dell’acqua è bloccato. Poi si comincia a togliere la creta e quando l’acqua scorre tutta la configurazione di fori che ne permette il corso è la misura precisa di questo flusso d’acqua. Per dividere l’acqua tra le famiglie secondo le quote spettanti basta ripartire tra le stesse la configurazione di fori risultata. Un grande vantaggio di questo sistema è che si sta dividendo il flusso, non un volume di acqua. Per cui se il flusso d’acqua aumenta o diminuisce viene ripartito sempre nelle proporzioni stabilite. L’acqua passa di generazione in generazione ai vari proprietari: se due membri della comunità si sposano uniscono la loro acqua, se un padre muore l’acqua va in eredità e l’oasi registra nella sua configurazione il trascorrere del tempo e delle genealogie.
Dei tecnici preposti allo sviluppo delle oasi proposero di sostituire con dei tubi interrati i sistemi di canalette superficiali. Questo perché a loro dire nel modo tradizionale si perdeva acqua per evaporazione. La soluzione proposta avrebbe distrutto una qualità estetica fondamentale dell’oasi, ma anche aspetti funzionali indispensabili. Infatti, l’acqua delle canalette superficiali contribuisce a creare sotto la chioma delle piante un micro clima che raggiunge il 90% di umidità favorevole alle coltivazioni, mentre nel deserto circostante questa non supera il 5%. Inoltre, per il particolare sistema di distribuzione, gli abitanti devono poter vedere la loro acqua e poterne modificare i flussi. Gli abitanti dell’oasi si opposero così alla proposta ma non riuscivano a spiegarne il perché e furono tacciati di sciocche superstizioni e inutile simbolismo. In realtà, i simboli e le credenze perpetuano conoscenze tecniche trasmesse in modo diverso da come ci è consono. Nei disegni dei tappeti si può riconoscere il sistema di distribuzione dell’acqua rappresentato nel suo aspetto augurale, simbolo di fecondità per il matrimonio e parte della costruzione di un ecosistema raccontato come un giardino paradiso. Le donne acconciano la loro capigliatura in base al ruolo ai momenti dell’età che corrispondono all’evoluzione dell’oasi. I bambini, quando nascono, sono rasati a zero come lo è il deserto. In seguito hanno solo un ciuffo di capelli in testa: è la prima palma. Quando la donna arriva alla pubertà divide i capelli con un pettine: è l’acqua che comincia a scorrere dalla pietra ripartitrice. Quando diviene madre li raccoglie in grande trecce fluenti, ora è come la terra, feconda e madre. Così il corpo e l’oasi sono collegati, comunità e cosmo costituiscono una cosa sola.
Un giorno ci telefonano dall’Oman e ci dicono che un canale sotterraneo non porta più acqua. Era stato rifatto ma di acqua ne arrivava ancora meno. Siamo andati a vedere. Cos’era capitato? Era stato ricostruito completamente in cemento. Ci dicono: «l’UNESCO vuole che li facciamo come erano, di pietra, ma sai quelli sono degli esteti…». Il fatto è che ora l’acqua non arrivava più. L’acqua non c’è perché non c’è una sorgente: è lo sviluppo sotterraneo del tunnel che attraverso le pareti filtranti crea l’acqua. Quindi non è solo per motivi estetici che si sarebbe dovuto rifare così com’era.
Vedendo nel Sahara algerino, grazie a Google Earth, dalle tracce simili a quelle rappresentate dai tappeti tessuti dalle genti locali, abbiamo riconosciuto i resti abbandonati di antiche oasi ora completamente desertificate. Incontriamo membri della comunità locale che conoscevano le antiche tecniche e con loro siamo andati in quei posti la mattina presto, quando la sabbia, ancora intrisa della umidità notturna proprio dove passano i canali sotterranei, presenta in superficie una crosta dura. Così abbiamo ritrovato i percorsi e con gli antichi maestri dell’acqua li abbiamo restaurati. L’acqua ha ricominciato a fluire… anzi… anche troppa. La popolazione è tornata. L’oasi è rifiorita ai suoi tre livelli: la palma sta crescendo, incomincia a dare datteri e proteggere gli alberi da frutto e gli orti sottostanti.
Per preservare queste conoscenze, abbiamo fondato con IPOGEA (www.ipogea.org) l’Istituto Internazionale delle Conoscenze Tradizionali, una banca dati dove le tecniche sono state inventariate: è una specie di Wikipedia delle conoscenze gratuitamente a disposizione di tutti (www.tkwb.org). Ogni tecnica è identificata da un’icona cliccabile: possiamo così capire come riprodurre alcuni metodi tradizionali, quanto costano ecc. Stiamo lavorando a un sistema più ‘friendly’ per garantire la disseminazione di queste conoscenze. Per ora si tratta ancora di una banca dati per esperti. Proporre le tecniche tradizionali non significa essere contro l’innovazione. Non sono le tecniche in sé stesse a dovere essere riproposte ma la logica che sta alla loro base. La capacità cioè di essere adeguate all’ambiente, non invasive e distruttive ma basate su soluzioni naturali. L’innovazione sostenibile di oggi sarà la tradizione di domani. Abbiamo bisogno di una tecnologia avanzatissima, organica e bio-filiaca che superi il meccanicismo e crei armonia e adattamento. La tecnologia industriale si è dimostrata efficace per risolvere situazioni immediate ma non efficiente e addirittura distruttiva nel lungo periodo. Se in un’oasi sostituiamo a un tunnel sotterraneo un pozzo che pompa l’acqua a grande profondità avremo subito un facile risultato ma abbiamo creato un disastro per il futuro. Infatti, il pozzo assorbirà tutta l’acqua nel sottosuolo sottraendola alle aree circostanti limitando nel tempo le risorse. Invece, il sistema tradizionale fornisce solo l’acqua che l’ecosistema può produrre e continuamente riprodurre assicurando la sostenibilità nel lungo periodo. Con l’aumentare dell’estensione del palmeto ci sarà sempre più umidità e acqua disponibile, in un circuito di interazioni e di amplificazioni positive di cui la comunità è artefice e garante.
Questo articolo è tratto da una Lecture tenuta dall’autore a Villasimius, Retreat FEEM, 21 settembre 2022