La popolazione aumenta, il clima cambia

La questione della crescita demografica torna periodicamente di moda, ma sembra essere ai margini del dibattito sull’emergenza climatica.

sovrappopolazione e clima

Autore

Edward Cruickshank

Data

5 Settembre 2022

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6' di lettura

DATA

5 Settembre 2022

ARGOMENTO

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Che la crisi climatica sia l’emergenza di cui occuparsi è ormai indubbio. Nei rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) viene ampiamente dimostrato come questa sia causata inequivocabilmente dall’attività umana e rappresenti un codice rosso per tutta l’umanità.

Nelle analisi di scenario condotte dall’IPCC, la valutazione degli impatti e dei rischi derivanti dal cambiamento climatico viene fatta tenendo conto di alcune tendenze globali che sono attualmente in atto e non legate direttamente al clima. Tra queste vengono citati anche ‘i cambiamenti demografici umani’. Eppure questo tema, certamente divisivo e complesso, fatica a emergere in modo esplicito nel dibattito pubblico.

La ‘trappola’ di Malthus e l’avvento dell’industria

Il saggio del pastore inglese Thomas Malthus Sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società del 17981 è probabilmente la prima opera che ha suscitato dibattito tra gli studiosi, dell’epoca e successivi, sui possibili effetti di un incremento della popolazione umana sull’ambiente e, più in generale, sulle condizioni di vita degli individui.

In piena prima rivoluzione industriale, epoca nella quale prese forma quest’opera, Malthus propose una teoria corroborata dall’evidenza storica che i miglioramenti tecnologici in grado di aumentare la produttività del lavoro non si traducessero in uno stabile e progressivo arricchimento della popolazione, ma piuttosto in una crescita demografica esponenziale e in un conseguente ritorno a tenori di vita più miseri.

Difatti, le serie storiche (stimate) relative ai redditi medi pro capite delle principali economie mondiali negli anni fino al 1800 registrano una sostanziale stagnazione appena sopra la soglia di sussistenza della durata di quasi un millennio.2

Tuttavia, l’assunzione fondamentale della teoria malthusiana, ovvero che i progressi tecnici non avvengano con sufficiente velocità da permettere un miglioramento diffuso e duraturo del tenore di vita della popolazione, si dimostrò infondata a seguito della profonda trasformazione economica, sociale e politica innescata dalla rivoluzione industriale.

L’Inghilterra di Malthus fu per ironia della sorte la patria di quella che Yuval Harari definisce la «quarta grande rivoluzione della storia dell’uomo» 3, e quindi la prima nazione a sfuggire alla trappola malthusiana, sperimentando miglioramenti tecnologici a un ritmo tale da permettere che la popolazione e il reddito pro capite crescessero di pari passo.

Ovviamente questo non accadde dal giorno alla notte, tutt’altro: le conseguenze immediate dell’automazione furono devastanti per grandi sacche della popolazione britannica che videro alterarsi radicalmente e nel giro di poco più di un ventennio gli equilibri economici, sociali e politici4.

Ciò che conta, comunque, è che mentre l’avvento dell’industria e l’instaurazione di economie capitaliste moderne hanno permesso la creazione, nel lungo periodo, di ricchezza e prosperità senza precedenti nel corso della storia, hanno anche dato inizio a pesanti cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di CO2 nell’atmosfera e a un progressivo degrado ambientale dovuto principalmente allo sfruttamento delle risorse naturali.

I limiti dello sviluppo o lo sviluppo dei limiti?

A partire dagli anni Sessanta, il pensiero di Malthus ha trovato un rinnovato sostegno e interesse a seguito di una crescente preoccupazione per le questioni ambientali e per il ritmo di crescita della popolazione umana – che era più che triplicata dai tempi della rivoluzione industriale, passando dunque da meno di un miliardo a più di tre miliardi in soli due secoli.

Le teorie cosiddette neomalthusiane elaborano modelli che vogliono spiegare il degrado ambientale in funzione di un aumento della popolazione. Paul Ehrlich, ad esempio, nel suo saggio The population bomb prevedeva che «centinaia di milioni di persone moriranno di fame» 5 negli anni Settanta a causa della sovrappopolazione 6.

Allo stesso modo, cinquant’anni fa, nell’influente Rapporto sui limiti dello sviluppo7, commissionato al MIT dal Club di Roma, si prediceva che se i tassi di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse naturali fossero continuati inalterati, si sarebbe assistito a un declino repentino della popolazione e a un overshoot con collasso mondiale entro la fine del XXI secolo.

C’è poi una scuola di pensiero opposta, nella letteratura che si concentra sul rapporto tra uomo e ambiente – analizzando come variabile principale la crescita della popolazione, e lì si trovano il lavoro di Esther Boserup e, più in generale, le teorie cornucopiane. Boserup invertì la causalità malthusiana con l’aggiunta della variabile tecnologica, sostenendo che l’aumento della popolazione avvii lo sviluppo di tecnologie che, a loro volta, comportano un aumento della produttività (agricola, in quel caso)8.

In altre parole, queste teorie postulano non solo che la popolazione sia meno responsabile del degrado ambientale rispetto a quanto ipotizzato dal pensiero malthusiano, ma aggiungono che la crescita della popolazione potrebbe addirittura innescare un miglioramento delle condizioni ambientali.9

I diversi modi di intendere la relazione popolazione-ambiente informano diverse priorità di policy: infatti, mentre Malthus e i pensatori neomalthusiani individuano nel controllo della popolazione e nei programmi di pianificazione familiare la soluzione, per Boserup e i teorici cornucopiani sono i fallimenti del mercato e le tecnologie inadeguate che devono essere risolti per evitare il degrado ambientale. Tuttavia, entrambi gli insiemi di teorie e politiche che sostengono presentano notevoli limiti.

All’estremità malthusiana di questo spettro le critiche hanno riguardato soprattutto la natura draconiana, paternalistica e disfattista di queste teorie.10Invece, i cornucopiani sono stati spesso etichettati come eccessivamente ottimisti nei confronti del progresso tecnologico e del libero mercato11. Infine, una critica comune a questi punti di vista essenzialmente opposti è che, indipendentemente dalla direzione della relazione, sovrastimino il potere esplicativo-causale di una singola variabile, ossia la dimensione della popolazione.12

Riportare il tema demografico all’interno del dibattito pubblico 

Sebbene, dunque, l’emergenza climatica in atto sia dovuta a un insieme di fattori di cui la crescita demografica è solo uno dei tanti (perdita di biodiversità, sfruttamento delle risorse naturali, urbanizzazione, disuguaglianze sociali ed economiche – per citarne solo alcuni), è interessante notare come questo aspetto rimanga sostanzialmente ai margini del dibattito pubblico attuale.

Eppure è recente la notizia del superamento della popolazione mondiale di otto miliardi di persone13. Le stesse previsioni delle Nazioni Unite indicano che la popolazione mondiale è destinata a crescere ulteriormente nei prossimi cinquant’anni, raggiungendo il picco intorno al 2100 a un livello di quasi 11 miliardi di persone, con la maggior parte di questa crescita che avrà luogo nei paesi a reddito basso e medio-basso14. Se queste stime dovessero rivelarsi esatte, la pressione sulle risorse del pianeta esercitata da una crescente popolazione potrebbe comportare l’impossibilità di raggiungere gli accordi di Parigi sul clima. Vediamo perché.

Nell’ultimo rapporto IPCC, vengono studiati cinque SSP (shared socioeconomic pathways), che altro non sono che scenari di cambiamenti globali socioeconomici utilizzati per simulare gli effetti a lungo termine sul clima. Di questi macro-scenari, gli unici in cui gli obiettivi di mantenimento del surriscaldamento globale al di sotto della soglie di 1,5°C e 2°C sopra i livelli preindustriali sono quelli appartenenti al SSP1, che viene denominato appunto ‘scenario di sviluppo sostenibile’ e sono, rispettivamente, lo scenario SSP1-1.9 e lo scenario SSP1-2.6 (figura 1).

Figura 1 – Cambiamenti della temperatura globale rispetto alla temperatura media tra 1850 e 1900, nei cinque scenari di emissioni principali utilizzati in AR6. Grafico da IPCC, 2021: Summary for Policymakers, p. 30. In: Climate Change 2021: The Physical Science Basis. Contribution of Working Group I to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change [Masson-Delmotte, V., P. Zhai, A. Pirani, S.L. Connors, C. Péan, S. Berger, N. Caud, Y. Chen, L. Goldfarb, M.I. Gomis, M. Huang, K. Leitzell, E. Lonnoy, J.B.R. Matthews, T.K. Maycock, T. Waterfield, O. Yelekçi, R. Yu, and B. Zhou (eds.)]. In Press.

Il problema è che il macro-scenario SSP1 dell’IPCC presuppone dei trend demografici molto distanti rispetto a quelli ora in atto: si stima che la popolazione mondiale crescerà fino a circa il 2050, per poi iniziare a decrescere e attestarsi attorno ai 7 miliardi di persone nel 2100, ossia al di sotto del livello attuale e molto al di sotto delle stime delle Nazioni Unite (figura 2).

Figura 2 – Tendenze della dimensione totale della popolazione mondiale fino al 2100 secondo i cinque SSP. Grafico da Kc, S., Lutz, W., 2017. The human core of the shared socioeconomic pathways: Population scenarios by age, sex and level of education for all countries to 2100. Global Environmental Change 42, p. 185.

A meno di eventi catastrofici straordinari (come per esempio guerre o pandemie), questi livelli saranno difficilmente raggiungibili senza implementare scelte forti ed esplicite per far scendere rapidamente i tassi di natalità in tutti i paesi ad alta fertilità; e difficilmente i decisori politici prenderanno misure in questo senso. 

L’unico notevole tentativo in questa direzione si è registrato in Cina con la famigerata ‘politica del figlio unico’ – il cui scopo era quello di limitare la natalità dei nuclei familiari a un figlio ciascuno. Risulterebbe però difficile immaginare che misure draconiane come questa vengano adottate su larga scala: innanzitutto, vista l’invasività che avrebbero sulle decisioni intime delle persone di pianificare famiglie e avere figli, solo un governo autoritario potrebbe contemplare di mettere in atto simili misure. In più, l’esperienza cinese della politica del figlio unico si è rivelata un sostanziale fallimento, tanto da spingere il governo cinese ad abbandonarla nel 2016. 15

A complicare ulteriormente il quadro, si aggiunge la situazione demografica dei paesi ricchi. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito a un crescente allarmismo riguardo la bassa natalità e all’invecchiamento medio della società in molti paesi ad alto reddito – Giappone e Italia in testa. Paure legate a una diminuzione della domanda16, all’insostenibilità dei sistemi pensionistici 17 e, più in generale, alla prospettiva di società ‘senza giovani’ 18 hanno dato vita a movimenti e politiche d’incoraggiamento alla natalità che potrebbero portare a un’inversione di tendenza dei trend attuali e a un conseguente aumento della popolazione nel medio e lungo termine anche nei paesi a tasso di crescita demografica attualmente basso, nullo o negativo.

Un aumento della popolazione nei paesi ricchi significherebbe oltretutto un aumento di quella sacca della popolazione mondiale che in media consuma più risorse ed emette più CO2, rallentando ulteriormente il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione.

La relativa marginalità dei rischi legati a una crescita della popolazione nel dibattito attorno all’emergenza climatica in corso si spiega una volta compresa la delicatezza e la complessità di questo tema. Tuttavia, è stato dimostrato come un maggior benessere economico e livelli di educazione femminile elevati siano fattori particolarmente rilevanti nell’influenzare i tassi di natalità.19 In altre parole, una minore disuguaglianza socio-economica e un benessere più diffuso, assieme a forti politiche educative rivolte alla popolazione femminile, determinerebbero tassi di fertilità più bassi. E misure in questa direzione sono auspicabili di per sé.

Le speranze di successo nella lotta al cambiamento climatico si fanno giorno per giorno più sottili; e queste passano attraverso misure di contrasto, di mitigazione e di adattamento in più ambiti. Se fosse vero che la sicurezza futura del mondo dipendesse anche dalla scelta della maggior parte delle persone di avere famiglie più piccole, queste avrebbero il diritto di esserne consapevoli.

La Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani 20delle Nazioni Unite afferma che le persone hanno il diritto di scegliere la dimensione della propria famiglia in modo libero, ma non possono scegliere responsabilmente se gli effetti che una crescita incontrollata della popolazione avrebbero sul clima rimangono ai margini del dibattito pubblico. 

Note

  1. T.R. Malthus, An Essay on the Principle of Population, Cambridge University Press, 1992 (1798).
  2. M. Roser, Breaking out of the Malthusian trap: How pandemics allow us to understand why our ancestors were stuck in poverty; B. Milanovic, An Estimate of Average Income and Inequality in Byzantium Around Year 1000, in “Review of Income and Wealth, 52, 2006, pp.449–470.
  3. Y.N. Harari, Sapiens: A brief history of humankind, Random House, 2014.
  4. Le testimonianze più rappresentative delle condizioni di vita in quel periodo vengono sicuramente da Charles Dickens (Hard Times, 1854), George Eliot (The mill on the floss, 1860), e Émile Zola (Germinal, 1885).
  5. Ehrlich, P.R., 1971. The population bomb. Ballantine Books.
  6. Sebbene le previsioni contenute nel libro non si siano poi verificate, l’autore ha recentemente affermato che le sue conclusioni sono ancora valide e che il crollo della civiltà ‘è quasi una certezza nei prossimi decenni’. D. Carrington,  Paul Ehrlich: Collapse of civilisation is a near certainty within decades
  7. D.H. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, The limits to growth: a report to the club of Rome, Google Scholar, 1992 (1972) .
  8. B.L. Turner, M. Fischer-Kowalski, Ester Boserup: An interdisciplinary visionary relevant for sustainability. Proc Natl Acad Sci USA 107, 21963, 2010.
  9. Si veda, ad esempio, M. Tiffen, M. Mortimore, F. Gichuki, More people, less erosion: environmental recovery in Kenya, ACTS Press, Nairobi, Kenya, 1994.
  10. Si veda, per esempio, R. Peet, P. Robbins, M. Watts, Global Political Ecology, Routledge, 2010 Oppure: J.L. Simon,. Resources, population, environment: an oversupply of false bad news, in “Science”, 208, 1980, pp. 1431–1437, 1980.
  11. D. Grigg, The Dynamics of Agricultural Change: The Historical Experience, Routledge, 2019.
  12. S.R Curran, A. de Sherbinin, Completing the Picture: The Challenges of Bringing “Consumption” into the Population–Environment Equation, in Popul Environ 26, 2004, pp. 107–131.
  13. E. Marro, Popolazione mondiale, superati gli otto miliardi di persone.
  14. Report UN Global Population Growth and Sustainable Development
  15. Can China recover from its disastrous one-child policy?.
  16.  J.M. Keynes, Some Economic Consequences of a Declining Population, in “Eugenics Review”, vol. 29, 1937, pp. 13-17.
  17. Bongaarts, J., 2004. Population Aging and the Rising Cost of Public Pensions. Population and Development Review 30, 1–23
  18. Il Sole 24 Ore, I troppi limiti di una Italia senza giovani
  19.  S. Kc, W. Lutz, The human core of the shared socioeconomic pathways: Population scenarios by age, sex and level of education for all countries to 2100, in “Global Environmental Change”, 42, 2017, pp. 181–192.
  20. Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite
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